Il Messaggero – Baldini: “La mia priorità? Tenere De Rossi”

«L’orientamento di De Rossi è di restare con noi». Non può fare una promessa, soprattutto una grande così. Ma Franco Baldini sa che sul capitano del futuro si deve esporre, anche rischiando di non vincere il braccio di ferro. Con la stessa forza che ha usato nelle trattative di mercato, in Lega e in Federcalcio, sino a sei anni e mezzo fa quando da un albergo dell’Eur disse addio. Da nuovo direttore generale della Roma, «supervisore e coordinatore» (parole sue), ha un compito: mettere nuovamente sotto contratto Daniele. E, raccolte le prime sensazioni dell’interessato, l’ex consulente di Franco Sensi garantisce ottimismo. Quella frase, nella chiacchierata di 78 minuti, vale da sola il bentornato a casa. Il resto, concetti eleganti, divertenti e noti, è tutto quello che c’è da sapere sulla nuova era. «La vera rivoluzione sarà la normalità». De Rossi il bello. «Ho parlato con Daniele, ma il mio interlocutore è il suo manager Berti. De Rossi l’ho trovato molto sereno e maturo. Bello. Gli ho detto che, se ha la metà della nostra voglia di tenerlo, non importa quanto ci metteremo ma il contratto lo faremo. È una priorità. Con le nostre finanze non riusciremmo a prendere uno forte come lui». Luis Enrique già promosso. «L’impatto che ha avuto è quello che immaginavo: difficile, e lo sapevo, ma sono molto soddisfatto. Parlammo un paio d’ore, l’ho adorato subito. I fatti mi hanno dato ragione, come persona. Ha un grande ascendente sui calciatori che conquisti solo se ti rispettano e non solo se li fai giocare. Giovedì mattina pioveva, per non arrivare tardi a Trigoria è partito alle cinque da casa: fantastico. È un grande allenatore, ha tutte le caratteristiche per vincere subito. Ma dobbiamo dargli gli strumenti».
Guardiola sì, Capello no. «Avevo avuto un approccio con Pep. Gli dissi: “Se ti va di fare un salto a Roma per rimetterti in gioco dopo tutti i trofei vinti”. Risposta: “Magari tra qualche anno”. Fabio non è mai andato dove c’è bisogno di aspettare. Quando alla Roma c’era qualcosa di ricostruire da capo, se n’è andato. Lui solo sa gestire una squadra di tanti campioni, qui siamo agli albori».
Moggi esiste ancora. «Non mi è mancato, sono sempre in tribunale. Ma la Roma non c’entra, sono cose personali».
La Triade della Roma (per gioco). «Fenucci è Giraudo, io per i capelli bianchi Bettega. Sabatini per forza Moggi».
Silenzio sugli arbitri. «Non ho imposto niente, a me piace un calcio meno velenoso in cui non se ne parla. In Inghilterra è un accessorio. Luis Enrique mi ha detto che non si è mai interessato all’arbitro: perfetto». Il suo ritorno: senza spiegazione e nessuna rivincita. «È tanta la responsabilità. Questo credito è cosa nuova. Prima mi presentavo da neofita per conquistarmi la fiducia piano piano e lavorando. Che è più facile. Non avevo niente da perdere e tutto da guadagnare, ora è il contrario: sì, ho paura. Sono dieci mesi che ho detto sì e non so ancora perché. A DiBenedetto spiegai: “Non c’è una ragione per lasciare la qualità della vita che ho a Londra per tornare dove c’è il tutto contro tutti”. Accettai, però. Non è una rivincita: significherebbe aver perso qualcosa prima. Ho avuto amore sconfinato dalla gente, idealizzato più che effettivo: rappresentavo certe battaglie con il presidente Sensi, avevamo vinto lo scudetto. Andai via io, la politica era cambiata: pochi mesi e sarei stato cacciato. Non mi è mancata Roma: tornavo due volte al mese da turista».
Le carezze a Totti. «In quell’intervista c’era più amore che altro. Quando ho detto che a trentacinque anni può giocare per altri quattro-cinque potevo essere accusato di diffamazione. Può farcela se smette di lasciarsi usare. Io per primo nel duemilaquattro l’ho fatto per la ricapitalizzazione: ci mise faccia e soldi. Deve solo pensare a giocare. Il talento non è mai stato discusso. Poi si è innescato il problema che Luis Enrique non lo faceva giocare. E si è parlato di complotto. Allora gli ho mandato un sms per parlarne. Gli chiederò quanto vogliamo da tutti i giocatori, magari una cosa in più perché capitano. Lo metterò nelle condizioni di essere normale e leggero. Il giorno dopo l’intervista avrei potuto spiegare, ma ho preferito che se ne parlasse. Ho preso insulti. Per chiarire ci sono voluti cinque minuti, con lui ho sempre avuto un rapporto semplice».
Gli americani e il business. «Pallotta mi ha detto: “I soldi li faccio con i fondi”. Questo club ha potenzialità e soprattutto è Roma, non Liverpool. Gli americani pensano a investire, non a speculare. A costruire qualcosa di buono per la società, per le loro origini italiane e per abbinarlo al loro nome. Per un tornaconto di sentimento. Non escludo che se non dovessero riuscirci potrebbero rinunciare. Anch’io me ne andrei». L’idea Roma, non il progetto. «L’intenzione è vincere presto, ma senza scadenze. Molto dipenderà da quest’anno. Con due inserimenti, l’anno prossimo, sapremo. È un percorso a termine medio-lungo. Mettendoci il tempo che ci vuole. La Roma è abituata ad aspettare diciotto anni, attenderne due non sarà un problema. Un’idea più che un progetto. Una squadra attraente, propositiva». L’intercettazione con l’ex vicepresidente federale Mazzini: Baldini puntava al ribaltone. «Una telefonata in cui la trascrizione è una cosa, il tono un altro: cazzeggio. Non osavo immaginare un ribaltone, andai in Sudafrica a vendere caffè. C’era però speranza, abbastanza condivisa. Anche se le facce restano le stesse nel calcio, le persone possono cambiare. Migliorare».
Chissà se la casta non c’è più. «Quando ho pensato che c’era, l’ho detto. Non so ora, sono appena tornato. Provai a fare calcio da un’altra parte. In Spagna è migliore che qui, in Inghilterra meglio che in Spagna. Adesso siamo pronti a recepire qualsiasi messaggio: l’Udinese sta provando a giocare senza barriere, la Fiorentina due anni fa faceva il terzo tempo. Io non ho soluzioni in tasca. Nè elementi per giudicare altri club». Lo stadio si farà. «È un esigenza. C’è bisogno di una propria casa. Ci arriviamo, di sicuro». Appuntamento con la Sensi in Campidoglio. «Se si presentasse l’occasione, da dirigente della Roma, non solo vorrei ma dovrei. Lei rappresenta un’istituzione, io una società. Non potrei fare altro. Le cose di rappresentanza hanno un valore diverso dai rapporti personali». Basta biglietti omaggio ai vip. «Lo status symbol, in Inghilterra, è essere in grado di comprarsi il biglietto nei posti migliori. Ho deciso: non avrò un solo biglietto omaggio, quando voglio invitare qualcuno lo comprerò».
Il Messaggero – Ugo Trani

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