La Repubblica (M.Pinci) – Lo avevamo lasciato dieci anni fa in una notte di luglio a Berlino, da cui era uscito a testa bassa dopo aver preso a testate Materazzi e una coppa del mondo. Due lustri dopo Zinédine Zidane non è più lo stesso. L’ex antipatico dalla classe abbagliante, il figlio di un muratore algerino ma nato a Marsiglia, pallone d’Oro nel ‘98 dopo aver demolito da solo il Brasile nella finale mondiale di Parigi, oggi è il frontman di un gruppo di stelle che arriva a Roma come una rock band internazionale in tournée. Devono viverla così Cristiano Ronaldo e compagni, se il viaggio d’andata in aereo si trasforma in una rassegna di selfie, tweet, sorrisi e battute a mezzo social, come se quella dell’Olimpico fosse una passerella per applausi a scena aperta. Contribuiscono di certo l’albergo Cavalieri Hilton blindato, l’imponente servizio di sicurezza con venti agenti di scorta, la cinquantina di fan in estasi pronti a buttare una giornata davanti all’hotel pur di strappare un autografo, l’ingresso in incognito o quasi da un cancello secondario. Forse la prima grande missione di Monsieur Zizou sarà proprio convincere quell’esercito di nomi altisonanti che la Champions non è la Liga e che quella contro la Roma di Spalletti non sarà un’esibizione priva d’insidie.
Quanto possano essere pericolosi gli italiani lui l’ha scoperto a proprie spese in quella notte estiva del 2006, quando Materazzi e Grosso gli scipparono il sogno di chiudere la carriera con il trionfo Mundial. C’era pure Totti, che oggi troverà sull’altra panchina, accanto a quella di cui Zidane è diventato il titolare: dal 4 gennaio il Real gli ha chiesto di rimettere insieme i cocci della fugace ma disastrosa — soprattutto per i rapporti interni allo spogliatoio — gestione Benitez. Lui si è presentato vincendo cinque delle prime sei, anzi stravincendole (5-0, 5-1, 6-0, 2-1 e 4-2), pareggiando però sul campo del Betis che aveva il peggior rendimento casalingo della Liga. A conti fatti, la Roma stasera rappresenterà il primo vero test per valutare la sua nuova carriera, iniziata chiudendo quel cerchio aperto nel 2013: da direttore sportivo dei blancos, Zinédine s’iscrisse alla scuola di Ancelotti, già suo allenatore nella Juventus, diventandone il vice. Un anno dopo, la panchina del Real Castilla, la squadra B, gestazione doverosa in attesa dell’inevitabile salto in alto. L’obiettivo malcelato di farne il “Guardiola madridista” aveva proiettato fin dall’estate l’ombra del mito Zizou sul poco gradito Don Rafa. Il sorpasso era scritto, il nervosismo di Benitez e il rapporto esploso con Cristiano Ronaldo non hanno fatto altro che anticiparlo di sei mesi. La missione che il vulcanico presidente Florentino Pérez ha consegnato a Zidane è la stessa per cui lo ingaggiò nel 2001, staccando alla Juventus un assegno da 150 miliardi di vecchie lire: riportare il club a vincere la Champions League.
Da calciatore ci riuscì al primo colpo, e decidendo l’ultimo atto contro il Leverkusen con uno dei gol più belli che la storia delle finali ricordi: un arcobaleno all’incrocio dei pali. Ora però quei piedi deliziosi che fecero innamorare l’Avvocato calzano comodi mocassini e Zidane per incidere deve usare idee e parole: «Sarà difficile perché giochiamo in trasferta, ma sono tranquillo perché abbiamo lavorato bene», dice. Una carezza allo spogliatoio merengues, in cui ha riportato serenità rispettando le gerarchie e rimettendo al centro dell’universo blanco Cristiano Ronaldo: in cambio, all’orgoglioso portoghese («Non scambierei la maglia con nessuno della Roma. Le critiche? Vi ho abituato male») chiede di trascinarlo verso un’altra finale. Italiani permettendo.