In vista dell’uscita (15 novembre) dell’autobiografia, Zdenek Zeman ha parlato anche al Corriere della Sera. Tra carriera e vita privata, l’allenatore ceco ha toccato diversi temi. Di seguito le sue parole.
Roma è la sua città d’adozione.
Vivo qui da 25 anni, ho allenato entrambe le squadre, e sia i laziali sia i romanisti mi vogliono ancora bene.
Come trova la capitale?
È una splendida città antica, e una metropoli moderna piena di problemi che nessuno affronta.
Perché?
Perché gli italiani rimandano sempre tutto a domani.
Lei per quale squadra tifa?
Sono sempre stato juventino. Da piccolo andavo a dormire con la maglia bianconera”.
Zeman juventino? Ma se avete avuto polemiche durissime.
Con la Juve di Moggi, Giraudo e Bettega. Ma la Juventus non comincia e non finisce con loro. Era la squadra di mio zio Cestmir Vycpálek: il più grande talento del calcio cecoslovacco prima di Pavel Nedved, che portai in Italia. La differenza è che Nedved, lavoratore maniacale, voleva allenarsi pure il giorno di Natale; mio zio invece amava le gioie della vita. Era stato a Dachau, e il lager l’aveva segnato. Ma mi dicono fosse birichino anche prima.
Nella capitale lei arrivò nel 1994, ad allenare la Lazio.
Firmai nella sede della Banca di Roma, e trovai la cosa molto strana. C’era pure Geronzi, il banchiere, e mi chiese quale allenatore avrebbe dovuto prendere la Roma. Lui pensava a Trapattoni.
La Lazio mi aveva esonerato. Suona il telefono: “Sono il presidente Sensi”. Buttai giù: “E io sono Napoleone”. Era Sensi per davvero.
Come andò con la Roma?
Il campionato 1998-1999 fu un calvario di torti arbitrali, che costarono alla mia Roma almeno 21 punti. A Udine ci inventarono un rigore contro. Avevamo un attaccante, Fabio Junior, immeritatamente detto l’Uragano blu, che non segnava mai; quando finalmente fece un gol, glielo annullarono, non si è mai capito perché. Episodi assurdi. I calciatori videro che i loro sforzi erano inutili, e qualcuno mollò. La quartultima giornata perdemmo 4 a 5 con l’Inter all’Olimpico. Si disse che l’Inter avesse contattato tre dei miei in vista dell’anno successivo. Ebbi l’impressione che alcuni fossero distratti, c’erano difensori che facevano i centravanti… Così con Sensi decidemmo di fare nuovi acquisti.
Invece Sensi la mandò via.
Il sistema lo convinse che con me in panchina non avrebbe mai vinto nulla.
Arrivò Capello, e nel 2001 vinse lo scudetto.
Ma con spese folli, tipo i 70 miliardi per Batistuta trentunenne, che costarono a Sensi il tracollo finanziario. E Capello non partecipò alla festa al Circo Massimo, che io non mi sarei perso per niente al mondo. Invece mi ritrovai senza contratto; del resto avevo sempre voluto accordi annuali. Mi avevano cercato il Real Madrid, il Barcellona, l’Inter. E avevo detto no a tutti.
Totti. Pareva avesse quattro occhi, due davanti e due dietro. Gli ho visto fare cose che sorprendevano tutti, anche me dalla panchina. Un’intelligenza calcistica prodigiosa. L’ho allenato due volte, quando aveva ventun anni e quando ne aveva trentasei, al mio ritorno alla Roma. Mi ha sempre seguito. E non abbiamo ma litigato.