Venditti: la mia Roma nell’anima

Venditti

Il Messaggero (Orlando) – Dove eravamo rimasti. Quindici anni fa Antonello Venditti portava l’arca di Goodbye Novecento allo Stadio Olimpico, il pubblico salutava Zeman e dava l’addio a De André. Le cose cambiano, le sue canzoni restano. Stasera torna con il live dell’ultimo Tortuga, antipasto di un tour che lo porterà fino a dicembre su e giù per l’Italia, brani anni ’70 e ’80 eseguiti con il gruppo storico Stradaperta (e la sorpresa di Carlo Siliotto al violino su Sotto il segno dei pesci) e per ospite la cordata capitolina composta da Carlo Verdone e Briga, con lo “straniero” Biagio Antonacci. Venditti, Roma, la Roma, l’Olimpico.

Un’associazione automatica e non solo per brani titolati come Roma RomaRoma Capoccia eGrazie Roma, per Tradimento e Perdono(dedicata ad Agostino Di Bartolomei) e La coscienza di Zeman, o per Circo Massimo 2001, sigillo della festa per lo scudetto. La compresenza è assidua anche altrove, nei dettagli, dalla Sora Rosa in dialetto a Dove («la Roma ha perso domenica e chi se ne frega») eHo fatto un sogno («Il tuo segreto io lo so qual è, forse nella gente che ogni giorno sceglie te»). È una mappa che va dai tetti trasteverini sognati in Stukas, durante il sofferto esilio dalla città, alle aule del liceo Giulio Cesare fino a Tortuga, il bar di fronte. Tutto connesso, ma non tutto sarà concesso. La scaletta è segreta e la sua partita Venditti se la giocherà con un repertorio che vanta piccole eliche del dna della canzone italiana. Con alle spalle le immagini monumentali della città, fontanone e cupolone, il rito collettivo si consuma in un posto abituato a cori e inni che lui stesso ha composto.

Li canta i suoi brani, quando è sugli spalti a seguire le partite?

«Sì, come tutti. Non sono più miei, sono anche miei. È un canto popolare e lì mi sento uno fra gli altri».

Mica tanto. La sua vita privata è da sempre legata ai calciatori.

«Zio Adalberto era uno dei soci fondatori della Roma e zia Sandra di notte cucinava l’amatriciana per tutti i giocatori. Conoscevo bene storie personali e preoccupazioni. Nel quartiere Trieste, abitavo nel palazzo di Egidio Guarnacci, che la domenica incontravo giù al portone: lui andava a fare il capitano, io il tifoso»

Sempre in curva?

«Macché. Se non avevo il biglietto, la partita la vedevo sugli alberi della Farnesina, dove mi contendevo il ramo con l’inquadratura migliore».

Con la notorietà sono arrivate le partite a calcetto con Conti e Falcao, le sfide a biliardino coi giallorossi, l’amicizia con Di Bartolomei…

«Conservo fatti, date, sensazioni, senza troppa nostalgia perché mi piace guardare al futuro. Non dimenticherò mai quel giorno del 1982, anno magico del mondiale, in cui io, Paolo Rossi e Marco Tardelli lasciammo Gianni Minà alle quattro del mattino, andammo al Gianicolo e improvvisammo una partitella contro i tassisti in una piazza Belli deserta. Ho imparato presto a dividere la realtà dal sogno e riesco ancora a separare le cose, il fan dall’amico. Mantengo la mia visione ingenua di bambino e lo stesso entusiasmo di allora, quando le partite si giocavano solo la domenica e l’attesa era infinita».

La prima volta che vide l’Olimpico?

«Fine anni ’50. Ero piccolo, salii le scale col fiatone e mi si mostrò lo spettacolo di una distesa verde mentre il sole mi baciava le guance. Quell’emozione me la porto ancora dentro».

Nei suoi brani c’è un costante ritorno adolescenziale alle coordinate urbane ed emotive. Come se lo spiega?

«È un ideale politico e sociale disatteso perché quello che sognavo sarebbe stato non si è poi realizzato. Ma la speranza per un mondo migliore non la perdo».

Per stasera c’è qualche sorpresa?

«Ne svelo solo una: l’invasione di palco finale su “Grazie Roma”. Per la prima volta la eseguiremo con fiati e cori in stile big band, e, se guardate bene, non sul palco ma nel cuore, vedrete anche Marcello Vento e Sandro Centofanti. È un omaggio a quei fantastici ragazzi che siamo stati».

Roma e la Roma restano inscindibili?

«Sì, anche oggi che la città appare divisa. In Italia mancano i diritti collettivi, non ci sentiamo rappresentati da nessuno e ognuno guarda il suo quartiere, condominio, pianerottolo. Ma Roma è un luogo soprattutto dell’anima. La ami perché è un mistero mai completamente svelato. Imperfetta e unica, ha difetti e pregi che solo noi possiamo riconoscerle, guai se lo fanno altri. Sarà anche frammentata, però l’amore importante che c’è fra me e il pubblico regge alla distanza. Il mio concerto vive di flussi di energia, che partono e rimbalzano, contagiano. Da soli siamo stonati, insieme il coro si accorda e viaggia in armonia. È una specie di magia».

Lo stadio, seppure una curva, lusinga o fa paura?

«Prima di salire sul palco sono sempre tentato di scappare. Colpa del mio spirito critico, di un senso di inadeguatezza, una timidezza spesso scambiata per arroganza o aggressività. Prometto una serata speciale. Userò poche parole e le canzoni parleranno per me, di noi».

PER APPROFONDIRE LEGGI ANCHE

I più letti