La Repubblica (L.Caracciolo) – I grandi si svelano nelle crisi estreme. Francesco Totti non ha mai sofferto tanto come in questi mesi, quando si è sentito svilito e abbandonato dalla società alla quale ha regalato tutta la carriera, anche a costo di rinunciare a impreziosirla con le coppe che avrebbe vinto a man salva se avesse accettato di spendere il suo talento nel Real Madrid. Poi quei due gol nei tre minuti magici, forse i più importanti della sua vita di calciatore. Non una coppa né uno scudetto, qualcosa di molto più personale: la consacrazione della sua unicità.
In quegli attimi si è squadernata davanti agli occhi di tutti, fans deliranti in lacrime e suoi inconcussi detrattori, la “differenza di Totti”, giusto il titolo dell’illuminante saggio che Mario Sconcerti volle dedicargli dodici anni fa. Differenza che non è fatta solo da una classe immensa, ma dal fisico che la sostiene. Perché di norma i magnifici numeri dieci del calcio moderno – da Rivera a Platini, lasciamo stare Pelé e Maradona, due casi a parte – non disponevano di speciali doti atletiche, anzi. Avevano chi correva per loro, da Lodetti a Bonini. Totti ha classe e fisico. E anche adesso, che non è più esplosivo come pochi anni fa, questo singolare innesto di qualità e quantità può fare, se ben centellinato, la differenza.
Dopo 303 gol e quasi un quarto di secolo di ininterrotta frequentazione del campo di gioco, scopriamo che ci sono stati diversi Totti. Il ragazzino talmente dotato da annoiarsi con i suoi coetanei e al quale, nei primi anni di serie A, campioni già affermati passavano volentieri la palla, a riconoscerne la superiore qualità. Ma che incrocia prestissimo sulla sua strada un tecnico, Carlos Bianchi, che lo battezza “discreto”, neanche fosse una delle mille promesse inespresse di un calcio che brucia rapidamente i suoi figli. E lo spedirebbe volentieri alla Sampdoria. Il vero Totti è figlio di Zdenek Zeman, che ne plasma fisico e carattere, esaltandone le peculiari doti atletiche. Ancora oggi, richiesto di chi siano i tre migliori giocatori italiani, il boemo snocciola: “Totti,Totti, Totti”.
Sarà però Fabio Capello, un tecnico che non lo amava – ricambiato – a consegnargli le chiavi della squadra che vincerà il terzo scudetto della storia romanista, nel 2001. Uno dei molti che avrebbe potuto vincere, se solo la latitudine di Roma fosse di qualche grado più a Nord. Oggi lo scontro è con un allenatore di notevole valore – Totti glielo ha riconosciuto pubblicamente – che per qualche tratto di carattere somiglia a Capello: Luciano Spalletti. Più che con lui, con una società che ha pensato di scaricarlo, neanche fosse per dirla con un altro Francesco, attualmente vescovo di Roma – uno scarto. Una scartina. Poi, in tre minuti, la storia cambia. Forse non per chi, a Trigoria o a Boston, coltiva tuttora l’idea di pensionarlo. Sicuramente per il resto del mondo, non solo romano, che mercoledì sera, nell’Olimpico desolatamente deserto, ha visto compiersi un miracolo. La differenza del Capitano. Accada quel che deve accadere, Totti ha vinto.