Corriere della Sera (L.Valdiserri) – «Ci hai fatto andare dappertutto a testa alta». Non c’è sintesi migliore di quello che Francesco Totti ha fatto per la Roma. Una semplice frase, pronunciata fra le lacrime da un tifoso giallorosso a una radio privata. Perché Totti è stato proprio questo, al di là delle vittorie, delle sconfitte, dei gol, degli assist e pure degli sputi o dei calcioni nel sedere. Francesco Totti è stato un sentimento, che lui descrive così, ricacciando le lacrime: «Nascere romani e romanisti è un privilegio, fare il capitano di questa squadra è stato un onore. Siete e sarete sempre la mia vita: smetterò di emozionarvi con i piedi, ma il mio cuore sarà sempre lì con voi. Ora scendo le scale, entro nello spogliatoio che mi ha accolto che ero un bambino e che lascio adesso, che sono un uomo. Sono orgoglioso e felice di avervi dato ventotto anni di amore. Vi amo». Non c’è niente da capire, come cantava un altro Francesco, De Gregori. C’è solo da vivere. E in questa festa bellissima e triste c’è da ringraziare anche il Genoa, che la ha onorata con una gara feroce, come se si stesse giocando la salvezza. Così ha reso prezioso ogni singolo minuto di Totti in quest’ultima partita con la maglia giallorossa. Poteva essere una passerella un po’ triste, è stata l’ultima battaglia per la squadra che ha sempre difeso. Meglio così. Giusto così.
Lo stadio ha fischiato (un po’) il presidente Pallotta, che ha deciso burocraticamente che il contratto del numero 10 fosse giunto al termine e che ha minacciato di lasciare la Roma se entro il 2020 non avrà costruito lo stadio. E ha fischiato a pieni polmoni Spalletti, perché avrà anche conquistato un secondo posto fondamentale per le casse della società, ma con Totti è stato sempre arido e rancoroso, trascinandosi i conti che riteneva di dover saldare dopo la sua prima esperienza sulla panchina giallorossa. È così che il tecnico di Certaldo è riuscito a spaccare una città, rovinando anche l’ultimo giro di campo del Capitano mettendosi furiosamente a litigare con chi lo aveva inquadrato sul tabellone dell’Olimpico, scatenando altri fischi, e con chi aveva intervistato in settimana alcuni suoi «nemici». Piccolezze, in mezzo all’amore immenso che lo stadio ha decretato a Francesco. Totti, come raccomandava Nils Liedholm, ha sempre fatto correre il pallone più che le gambe. Forse è anche per questo che quell’ultimo giro di campo gli è stato così pesante da doversi fermare a riprendere fiato mentre era a metà.
Insieme a Ilary, con la famosa maglietta «6 unica!» che sancì il loro amore. Con i tre figli — Cristian, Chanel e Isabel —, che cercava di gestire come un allenatore deve fare con la squadra, dando spazio un po’ a tutti e facendo sentire tutti importanti. Con l’amico di sempre, Vito Scala, che lo ha scortato anche in questa notte che Francesco avrebbe voluto allontanare: «A un certo punto della vita si diventa grandi, così mi hanno detto e così il tempo ha deciso. Maledetto tempo. È lo stesso tempo che quel 17 giugno 2001 avremmo voluto passasse in fretta: non vedevamo l’ora di sentire l’arbitro fischiare tre volte. Mi viene ancora la pelle d’oca a ripensarci. Oggi questo tempo è venuto a bussare sulla mia spalla dicendomi: dobbiamo crescere, levati i pantaloncini e gli scarpini, perché tu da oggi sei un uomo e non potrai più sentire l’odore dell’erba così da vicino, il sole in faccia mentre corri verso la porta avversaria, l’adrenalina che ti consuma e la soddisfazione di esultare… Ora è finita veramente. Mi levo la maglia per l’ultima volta. La piego per bene anche se non sono pronto a dire basta e forse non lo sarò mai. Scusatemi se in questo periodo non ho rilasciato interviste e chiarito i miei pensieri, ma spegnere la luce non è facile. Adesso ho paura. E non è la stessa che si prova di fronte alla porta quando devi segnare un calcio di rigore. Questa volta non posso vedere attraverso i buchi della rete cosa ci sarà dopo. Concedetemi un po’ di paura. Questa volta sono io che ho bisogno di voi e del vostro calore, quello che mi avete sempre dimostrato. Con il vostro affetto riuscirò a voltare pagina e a buttarmi in una nuova avventura». Quale? Ce la racconterà presto: restare per rifare grande la Roma. Come dirigente? Forse. O magari allenando i ragazzi. Non a caso ha lasciato la sua fascia a Mattia Almaviva, nato nel 2006, il più giovane capitano del settore giovanile della Roma. Perché i veri amori non finiscono mai.