La tentazione, davanti alla morte di un giovane calciatore sul campo di gioco, è quella della scorciatoia demagogica.
Prendersela con chi controlla gli atleti solo due volte l’anno, con chi non ha un team di rianimazione a bordo campo, e con chi posteggia male le vetture impedendo all’ambulanza di giungere in tempo sul terreno erboso. O semplicemente ragionare dell’ineluttabilità del fato. (…)
Ma è per rispetto di Piermario Morosini, di quel suo cercare di rialzarsi da terra tre volte – come un cowboy trafitto da frecce avvelenate – mentre tutto intorno a lui continuava a scorrere, che rifiuto la scelta del j’accuse generalizzato, che come sappiamo non porta mai da nessuna parte. Ora i controlli già severi si faranno più stringenti. Ora si renderà obbligatoria – probabilmente – la presenza di una squadra di anestetisti e di rianimatori in grando di intubare sul posto. Ma a lui non gliene frega più nulla. Il campionato è stato sospeso. A giocare c’è sempre tempo. Ed è stata l’Udinese, squadra a cui Morosini apparteneva, anche se è morto con la maglia del Livorno a cui era stato dato in prestito a gennaio, a decidere che ieri sera non avrebbe giocato contro l’Inter. E la Federazione ha annullato tutte le gare.
A partire da Milan-Genoa, bloccata in extremis mentre i calciatori si scaldavano. In serie B si stava invece giocando e tranne il campo di Pescara, dove è accaduto il dramma, non si è fermato nulla. Troppo complicato forse interrompere le gare nel secondo tempo? Non so. Forse è la morte stessa che è un tema difficile da trattare per tutti. E’ un fatto naturale, è un evento previsto anche nella sua imprevedibilità. Eppure, nonostante faccia parte della nostra vita, la morte – a maggior ragione a venticinque anni e in un atleta – non è accettata. Non è accettabile. Il povero Morosini invece l’aveva già dovuta accettare molto presto con la scomparsa di entrambi i genitori e del fratello maggiore. Non possiamo certo dire che se ne fosse fatto una ragione. Non ci si fa mai una ragione del non vedere quotidianamente le persone che più si amano e più ci hanno amato. Per tre volte ha tentato di rialzarsi su quell’erba di Pescara, sotto gli occhi di uno Zeman che più di ogni altro uomo al mondo ha attaccato la mancanza di scrupoli farmaceutici nel mondo del calcio.
Ci piace pensare che al terzo tentativo di rimettersi in piedi – e davanti ad un ambulanza che non arrivava mai – siano invece arrivati padre, madre e fratello. E lo abbiano portato in un gran bel posto. Dove a fronte di un campionato che si ferma per lutto – ma che poi riprende come se nulla fosse – e trasmissioni sportive che invece non si fermano e rovistano fin dentro le foto delle sue vacanze su twitter, ci sia eterno pallone. Un luogo dove le panchine non esistano, medici e giornalisti non servano, e le porte non abbiano reti. (…)
Il Romanista – S. Romita