Scappate se potete. Ormai non c’è più molto da fare. Il nostro grande errore è pensare che le cose cambino, solo perché tra un episodio di violenza o di inciviltà da stadio e un altro si solleva un po’ d’indignazione. Oppure – in una frase ormai standardizzata – che si sia raggiunto il fondo. No, non l’abbiamo raggiunto il fondo, ci stiamo e ci rimaniamo. E’ la nostra condizione normale. Se non lo avete capito, il calcio italiano questo è. Non cambia e non cambierà. In realtà camminiamo e viviamo in un ambiente ormai avvelenato, contaminato forse per sempre. La violenza – sia fisica o anche solo espressa sotto forma di razzismo e intolleranza – ne è una condizione quasi essenziale.
La nostra indignazione che per altro dura lo spazio di 48-72 ore non cambia assolutamente nulla, non ha la forza di scatenare le reazioni necessarie, non smuove chi dovrebbe smuovere, lascia tutti al loro posto. Da questo punto di vista siamo perdenti e sconfitti noi per primi, credo di averlo scritto decine di volte. La battaglia per un calcio civile e a misura d’uomo è una battaglia perduta. Chi lo vuole o se ne è andato, o sta per andarsene. E ha ragione, come puoi dargli torto?
Vuoi farti prendere a pistolettate fuori dallo stadio? Vuoi farti massacrare di botte nel parcheggio fino a farti sfigurare il volto? Vuoi assistere a uno show di striscioni incivili? Vai, fallo, accomodati. A tuo rischio, e pericolo sappilo. Oltre a chiedere documenti e certificati penali alle poche civili che frequentano gli stadi, obbligherei i club a stampare grande sul biglietto d’ingresso: IL CALCIO E’ UNO SPORT PERICOLOSO. Lo fanno già sui badge della Formula 1…
Il derby di Torino è stata semplicemente un’altra tappa nell’involuzione incivile del nostro calcio. Ma tutto sommato una semplice tappa, che ne prevede una prima e una dopo. Il calcio italiano è ormai come un buco nero che si autodivora, inghiotte il tempo e lo spazio, diventa sempre più pesante incontrollabile, si carica di energia devastante e negativa. Sostanzialmente è incontrollabile. Almeno con questi mezzi, con questa politica, con questi dirigenti, con questa mentalità, con queste lobby di potere che non vogliono vedere intaccare nulla dei propri interessi. Accadono purtroppo tutte cose già conosciute, che si sarebbero potute evitare, ma che continuano a segnare la nostra maniera di vivere il calcio. Come un metronomo. Dunque hanno preso a pietrate il pullman preso a pietrate. Quante volte avete sentito la notizia di un pullman preso a pietrate? Alla Juventus putroppo accade spessimo, tant’è vero che il pullman ha i doppi vetri. La prossima volta magari mettiamoci delle grate di ferro, tipo quelle dei cellulari che trasportano i detenuti… Tanto non manca molto a uno scenario da film post-atomico. Pochi ultras? Pochi violenti? Beh vedo che il pullman della Juventus è stato assalito e circondato da qualche centinaio di delinquenti. E non mi sembrano pochi. Sono numeri grandi, enormi. Mettiamo tutti quelli che li coprono, li proteggono, li giustificano, li applaudono e abbiamo una discreta comunità criminale. Sbaglio o ne avevamo parlato un paio di settimane fa all’epoca degli striscioni della curva della Roma contro la mamma di Ciro Esposito? Visto quanto tempo è passato?
La risposta degli ultras bianconeri contro quelli granata è stata quella di “bombardare” il settore vicino di bombe carta e petardi particolarmente potenti. Che non sono precisamente i tric-trac di Natale, ma veri e propri ordigni artigianali. Stavolta ne hanno fatto le spese una decina di persone, che si ritrovano all’ospedale per il solo fatto di essere andate a vedere una partita. Due in maniera particolarmente grave. Quante volte avete sentito, dal vivo o anche durante una telecronaca tremare lo stadio, le tribune, i seggiolini delle persone tranquillamente sedute? Siete addirittura sobbalzati sulla sedia. Il laziale Vicenzo Paparelli, umile meccanico andato a vedere il derby di Roma con pane e frittata nella borsa, fu ucciso da un razzo sparato dalla curva opposta nel ’79, 36 anni fa. Le bombe carta hanno già colpito e fatto male: ricordate Fiorentina-Grasshoppers a Salerno nel 1998, oppure il caso di Dida letteralmente bombardato durante il derby di Coppa di dieci anni fa? Quante volte abbiamo sentito episodi del genere?
Perché si assaltano ancora pullman? Perché si bombardano ancora le curve, gli spettatori, i giocatori? Non c’è risposta, purtroppo. E quello che semlicemente e meccanicamente ripetiamo in occasioni del genere, quando non sappiamo più che dire. Perché è così.
Siamo sconfitti soprattutto perché dimentichiamo in fretta, non abbiamo memoria. Ogni città, ogni stadio, ogni squadra ha i suoi lati oscuri. E il derby di Torino non è meno pericoloso di una partita a Napoli o a Roma. Tre anni fa un tranquillo signore di mezza età che si avviava a vedere il derby Juventus-Torino, colpevole solo di avere una sciarpa bianconera al collo fu assalito, gettato a terra, colpito ripetutamente a calci e pugni in faccia, tanto da sfregiarlo a vita. Non è più la stessa persona. Ci ha rimesso la faccia. In prima istanza gli aggressori ultras granata presero fino a 9 anni di carcere per tentato omicicio, poche settimane fa la pena è stata ridotta in appello a 2 anni per lesioni aggravate.
Non più tardi di una decina di giorni fa la polizia di Roma ci ha mostrato come si fanno entrare nello stadio petardi potentissimi e bombe carta. Nei panini svuotati dalla mollica ad esempio, nascosti tra una fetta di salame e una di formaggio. Gli stadi italiani sono dei colabrodo, entra di tutto. O meglio qualcosa o qualcuno non entra più: la gente normale, comune, le famiglie, il figlio di un padre che si impone: “No, tu allo stadio non ci vai, punto”. Massimiliano Allegri, allenatore della squadra che prima o poi vincerà il campionato, ha detto: “Portare i bambini oggi allo stadio è da folli”. E non gli si può dare toro.
Quante volte abbiamo detto che ordigni del genere sono pericolosi, possono addirittura uccidere. Gli stadi italiani sono una Santa Barbara della follia. Da cui la gente per bene e normale sta ormai fuggendo da tempo.
Scappate se potete, finché siete in tempo.
Repubblica.it – F. Bocca