Jack e il fagiolo magico. Jack in realtà si chiama James e di cognome Pallotta, fa il presidente della Roma oltre che il finanziere e non ha ancora capito bene come funzionano le squadre di calcio. Chi può dire di saperlo davvero, peraltro? E poi Jack può chiamarsi Jack o in qualsiasi altro modo, Mario, Alessandro, Marcovaldo: è qualsiasi tifoso medio della Roma che ha visto di colpo il club sbocciare frenetico e innalzarsi verso la vetta della classifica, pianta gigante nata da un seme invisibile. Non è concesso immaginare se il tronco continuerà a salire rigoglioso oppure se appassirà rapidamente e incurabilmente come accade talvolta agli incantesimi delle belle storie.
Di certo al terzo anno del piano quinquennale stilato dagli americani – bisogna pur ammettere che di piano quinquennale Pallotta e i suoi. La Roma sta cominciando ad assumere l’aspetto della regina in cui la cordata statunitense aveva promesso di trasformarla. A ovest dell’Atlantico hanno sempre amato le favole e talvolta sono persino capaci di farle avverare. Viene quasi voglia di tornare a parlare di progetto, se non fosse una parola dalle sinistre proprietà iettatorie.
CHE COSA E’ STATO FATTO – Sul piano tecnico l’esperimento è riuscito. Hanno dovuto cambiare i reagenti in corsa, togliendo quelli vecchi da provette che già cominciavano a scottare, ma quel che conta sono i risultati. Prima di capirlo hanno dovuto passare attraverso l’umiliante trionfo altrui nella finale di Coppa Italia. E’ stato detto più volte, ripetiamolo pure: alla Roma servivano iniezioni di esperienza e di carattere. Per ottenerle hanno dovuto rinunciare a giovani ben più che promettenti, praticamente già adulti: Lamela, Marquinhos, se vogliamo anche quel bambinone dal talento straripante chiamato Osvaldo. Ha funzionato: quel che la squadra ha mostrato vincendo le prime sette partite può essere considerato eccezionale; comunque poggia su una qualità globale che a un certo punto magari si incepperà ma non è pensabile scompaia.
La storia delle società di calcio europee gestite da azionisti statunitensi è fatta di grande attenzione alla sostenibilità del bilancio e alle fonti possibili di introito. Pallotta non ha l’aria di voler dilapidare il patrimonio con spese fuori registro. Ma a quanto è dato sapere è rimasto affascinato da Roma, dalla Roma e dai suoi tifosi. Non ha intenzione di cedere il pacchetto di controllo a breve o a media scadenza. E si rende conto che nessun tentativo d ulteriore accrescimento dei guadagni, nessun’ombra di business è pensabile senza la valorizzazione sportiva del marchio. Quindi senza vittorie. Anche per banale interesse non ha motivo di tenere la squadra in regime di sopravvivenza ed emergenza continua. Semmai aveva intenzione di darle un’identità e con Rudi Garcia il primo passo è stato completato.
CHE COSA MANCA – I primi due anni dell’era bostoniana sono stati percorsi alla cieca. A tentoni, se vogliamo essere meno radicali. C’era un brogliaccio, un groviglio di appunti spacciati per progetto tecnico, talmente utopistico e confuso da affascinare. Ci hanno creduto anche competenti di calcio e la forza dell’illusione è stata tale da cancellare la realtà molto a lungo.
Per fortuna basta poco. Basta qualche altra vittoria importante. Tuttavia per suggellare la svolta bisognerà attendere la fine del campionato e contare le squadre arrivate davanti. Il terzo posto, meglio il secondo, questo è vitale. Significa quattro milioni subito dalla Champions League, tre solo per giocare la fase a gironi, una decina insomma più o meno assicurati.
Sulle maglie manca sempre uno sponsor principale. La Roma cerca un nome che colpisca e una quantità di soldi degna di lei. Naturalmente bisogna mettersi d’accordo sulle proporzioni. Oggi nessuno versa 10 milioni a fondo perduto per bearsi di una scritta sul petto di qualche atleta.
Corriere dello Sport – M.Evangelisti