La Gazzetta dello Sport (G.Dotto) – Se c’è oggi un nemico della Roma, questo si chiama Francesco Totti. Suona male? Malissimo. Una bestemmia? Enorme. Ma qualche volta i blasfemi sanno quello che imprecano. Non credete alle manfrine e ai tapiri. Il problema resta, più che mai, in una città più tottista che romanista. C’è solo un capitano. «Per fortuna che ce n’è solo uno…» sussurrano nel bunker di Trigoria, che Totti ha trasformato nel tempo nella confortevole e anche un po’ svogliata cuccia di un tramonto che non tramonta. L’idolatria di Roma per Totti sta uccidendo la Roma. Di sicuro sta uccidendo i suoi allenatori, uno a uno. L’ultimo, Luciano Spalletti. Ieri, alla vigilia di Roma-Torino, su diciassette totali, dieci domande su Totti. Lui, novello Rasputin risciacquato in Baltico, arriva per salvare la Roma, una fanciulla ripudiata da tutti, anche dai suoi tifosi. Occhio magnetico, toni ispirati, detta le regole, fa e dice cose meravigliose, otto vittorie di fila. Non basta. Non gliene frega niente alla gente che salvi la Roma. È Totti il soldato da salvare. Al primo pareggio, ecco la sassaiola. Al terzo, c’è già qualche tribuno microfonato che vuole la forca a Porta Metronia. Bologna. Atalanta. Leggi, ascolti. Sembra che abbia giocato solo Totti.
Gli altri? Tappezzeria. Perotti gioca una partita da restarci secchi. Se n’è accorto qualcuno? Zero. Tutti risucchiati dal gol di Totti, l’assist di Totti, lo stop di Totti. Una folla gregaria, una follia insulsa. Totti non è più un giocatore e nemmeno un ex giocatore, è un sintomo. Francesco Totti come Kobe Bryant? Non scherziamo. Una comoda astrazione facile da spendere. Bryant non è mai stato un vitello d’oro da genuflessione di massa. Non è un fantasma imperativo e sottilmente ricattatorio. Il figlio straviziato di una lupa dalle centomila mammelle, il pupone con il ciuccio in bocca che vorrebbe raccontare i figli che ha e racconta invece il figlio che è. Totti preferisce ostinarsi da vecchio giocatore piuttosto che reinventarsi da giovane e strapagato dirigente? Affari suoi. «Bisogna abbandonare le cose che ci abbandonano» scrive Baltasar Gracian. «Mi sento ancora calciatore» replica lui, il primo a non sapersi immaginare altro e altrove. Soprattutto non dite che Totti è romanista. Lui è oggi il primo tottista. Un leader che tace incomprensibilmente quando la squadra frana e parla maldestramente quando vola. Un leader che si dimentica troppo spesso di esserlo. Peccato. Mancava poco perché la storia di Francesco Totti diventasse una storia perfetta ma quel poco è la cruna di un ago, una montagna da scalare. L’addio di Totti è il più lungo, estenuante funerale annunciato della storia del calcio. E il primo a negare il lieto fine è proprio lui, il capitano. Bob Dylan, un altro capitano che si ostina, va a cantare in cantine assurde di città improbabili. Ma è un fantasma solitario. Non disturba nessuno. Totti ha fatto del suo esercito di adoratori l’esoscheletro che lo fa sentire invulnerabile. Non parla perché sa che sono loro a farlo al posto suo, pronti a scatenare l’inferno. Più ci si rifugia nella religione del Pupone, più s’impedisce a tutte le risorse intorno di crescere. La soluzione? Non può che essere una. Francesco stesso. Che s’inventa l’esorcista di se stesso. Nell’aiutare la sua gente a immaginare che possa esistere una Roma di là da Totti. E i giovani. Aiutarli a crescere, a sentirsi il dopo Totti senza per questo percepirsi sacrileghi. Allora sì, sarà, sarebbe, una storia perfetta.