Corriere della Sera (L. Valdiserri) – L’aveva chiesto lui, quando era stato scelto dai Friedkin per sostituire José Mourinho sulla panchina della Roma: “Giudicatemi come allenatore e non come una bandiera del passato”. Come è stato, allora, l’allenatore Daniele De Rossi nelle trenta partite in cui ha diretto la squadra giallorossa? I numeri dicono: 13 vittorie, 10 pareggi (per la statistica è tale anche la vittoria ai rigori contro il Feyenoord in Europa League) e 7 sconfitte.

Eccellente la prima parte in cui era subentrato a Mourinho; in calo il finale dello scorso campionato, anche per il logorio dei big-match ravvicinati; deludente l’avvio di questa stagione, pur con tanti alibi. Come a un buffet c’era un cibo adatto a tutti: gli ammiratori, gli agnostici, gli scettici, i detrattori.

Su un particolare, però, bisogna riflettere: a De Rossi, come Ghisolfi, era stato fatto un contratto triennale. Allenatore e d.s. giovani per costruire una squadra che doveva abbassare età media e ingaggi, patrimonializzando con calciatori di proprietà e non prestiti o attempati parametri zero. Quello che, con un parola invisa a molti tifosi, si poteva chiamare “progetto”. E un progetto ha bisogno di tempo, altrimenti si chiama rischio.

Aver esonerato De Rossi dopo soltanto 4 partite di campionato significa che la Roma ha necessità assoluta di partecipare alla prossima Champions e per questo, alle prime difficoltà, si è deciso di intervenire subito. Chi paga, sceglie. Anche a Ivan Juric va lasciato il tempo per lavorare. Speriamo solo che sia stato scelto perché si crede nel suo calcio e non perché è visto come il sergente di “Full Metal Jacket” in mezzo a tanti soldati Palla di Lardo.