La Repubblica (M. Pinci) – Serviva un imperatore a Roma per uscire dai propri incubi. Serviva José Mourinho per cancellare trent’anni in un colpo e riportare la Roma a giocare una finale europea, la quarta della sua storia, per restituire a una città anestetizzata dalla mediocrità, dalle aspettative frustrate, dalla logica del piazzamento, la voglia di inseguire un’illusione. Era stato preso per questo: per urlare in faccia alla città, ma soprattutto ai giocatori, che il tempo di accontentarsi era finito.
Gli sono bastati dodici mesi esatti dal pomeriggio di quell’annuncio shock per conquistare una finale. E non è un caso che nella notte romana contro il Leicester, in un Olimpico sognante e coloratissimo, il biglietto verso la finale di Conference League a Tirana del 25 maggio lo abbia timbrato Tammy Abraham, il più mourinhano dei calciatori della Roma: lo ha coccolato nelle giovanili da manager del Chelsea, lo ha seguito da spettatore interessato ai tempi di United e Tottenham, lo ha chiamato in estate: “Be’, che aspetti? Non ti sei stancato di veder giocare gli altri?“.