Corriere dello Sport (C. Zucchelli) – L’amore può non essere eterno, ma non dovrebbe durare così poco. Soprattutto quando è vero, condiviso, contraccambiato. E quanto male fa quando si interrompe bruscamente? La fine improvvisa fa tremare le gambe, blocca il fiato in gola, rende tutto malinconico ancora prima che finisca. Perché porta qualcosa di incompiuto. Porta via le emozioni, i pochi ricordi, le illusioni, le speranze e i sogni. Porta via la gioia di quando pensi che tutto sia possibile e ti lascia il rimpianto di tutto quello che poteva essere e non è stato. Ecco: Paulo Dybala, oltre a svariati milioni di euro (ma l’amore vero c’entra poco col denaro), porta via con sé tutto questo. C’è una frase che ieri rimbalzava sui social, di Eminem: “Il cuore te lo spaccano una volta sola, dopodiché sono solo graffi”. Come immagine molti tifosi hanno messo quella dell’addio al calcio di Totti.
Negli ultimi sette anni i romanisti hanno visto liquidare il proprio Capitano come se fosse l’ultimo dei calciatori – e il primo dei problemi – e hanno visto salutare quel signore che oggi siede in panchina con un anonimo tweet alle 8 di mattina. Possono sopravvivere, quindi, all’addio di Dybala? Sì, certo. Mai schiavi del risultato e mai schiavi del singolo, la Roma prima di tutto e tutti. Anche se poi quei tutti si chiamano Totti e De Rossi, che non hanno rappresentato due colori ma un amore. Dybala non ha rappresentato tutto questo: veniva dall’Argentina, dal Palermo e dalla Juventus, faceva la maschera a Torino e la farà anche in Arabia, chiuderà la carriera forse al Boca perché il cuore è lì che lo porterà. Ma ci sono amori che anche se non eterni ti lasciano qualcosa dentro. Ti lasciano soldi (quanto ha fatto incassare Paulo al club tra maglie e biglietti?), a voler essere cinici. Ma ti lasciano soprattutto sogni.
Quando è arrivato la Roma aveva appena vinto la Conference dopo 14 anni di polvere e bonsai e lui, con Mourinho in panchina e Dan Friedkin alla guida, rappresentava la bellezza del sogno, il cuore che non smetteva più di battere. Sembrava un biglietto aereo per la felicità: aveva vinto dodici trofei a Torino, voleva il tredicesimo a Roma. C’era quasi riuscito, nella notte di Budapest. Prima dell’incubo Taylor, perché anche nelle fiabe ci sono i cattivi. Le sue lacrime erano e resteranno sempre quelle di qualsiasi romanista. È stato il punto più alto della Roma degli ultimi vent’anni, quel gol lì, quando ogni romanista ha toccato il cielo con un dito e l’Europa League con tutto quello che aveva. Non era più una questione di marketing, di presentazione stile Hollywood al Colosseo Quadrato, non cerano più i gossip sul matrimonio (che sarebbe arrivato solo due anni dopo) e neppure i dubbi sulla condizione fisica (che non l’hanno mai abbandonato). C’era solo una coppa da andarsi a prendere e una Joya che sembrava irreale. Dybala non era solo il 21 della Roma perché un numero non lo è mai stato. È stato la maglia di tutti i bambini, la giocata improvvisa, il gol (34), i dribbling, gli assist (17), la luce. Non aveva niente da dimostrare, ma ancora tanto da dare. Un po’ come quegli amori che finiscono all’improvviso.