Il Fatto Quotidiano (V.Curcio) – A più di ottant’anni dalla sua composizione, la “Canzone di Testaccio” è ancora intonata dai tifosi della Roma. È un modo per coltivare la memoria dei tempi giocati all’ombra del Monte dei Cocci, ma è anche un’esortazione rivolta agli undici in campo: tirate fuori lo spirito testaccino di un tempo. Nonostante la sua diffusione, pochi sanno che la canzone fu composta sulle note di “Guitarrita”, un tango scritto da Bixio Cherubini e Armando Fragna nel 1930. Il compositore Fragna e il paroliere Cherubini scrissero “Guitarrita” per la colonna sonora del film romantico-popolare “La canzone dell’amore”, diretto da Gennaro Righelli e presentato a Roma il 6 ottobre 1930. Il film, tratto dalla novella “In silenzio” di Pirandello, è la prima opera cinematografica col sonoro di produzione italiana. L’anno successivo, il paroliere e poeta Totò Castellucci compose sulle note di “Guitarrita” quella che al tempo veniva chiamata la “Canzona de Testaccio”, oggi nota anche col semplice titolo di “Campo Testaccio”. Grazie al suo contributo, l’incipit del tango (“Sotto le stelle nell’Argentina / bruna regina regnavi tu”) divenne il celebre “Cor core acceso da ‘na passione / undici atleti Roma chiamò”. L’attività di Castellucci come autore di testi dedicati all’AS Roma non si limitò a questa occasione, tant’è che negli anni ’50 uscì addirittura un suo “Canzoniere giallorosso”.
A Roma la tradizione di ideare canti calcistici sulle note di canzoni già famose ha dunque radici che vanno ben oltre i cori ideati su “La partita di pallone” di Rita Pavone o “La notte vola” di Lorella Cuccarini. Tuttavia, non dobbiamo immaginare la “Canzone di Testaccio” come un brano frutto di quella “creatività collettiva” che risiede nelle curve e che tanti capolavori ha regalato alla cultura sportiva italiana. Castellucci infatti compose il brano per il primo film italiano dedicato al calcio: “Cinque a zero” di Mario Bonnard, uscito nel 1932, del quale oggi sarebbe rimasta una sola pellicola in lingua francese. Il film trae ispirazione dallo storico celebre 5-0 assestato dalla Roma alla Juventus il 15 marzo 1931 e vede la partecipazione di buona parte della rosa romanista, tra cui Ferraris IV, Bernardini, Volk e Masetti, nonché di Zi’ Checco, storico custode di Campo Testaccio. Nella commedia di Bonnard le vicende calcistiche fanno da sfondo a due storie di coppia: l’amore tra il centravanti della squadra e una ballerina del varietà e il rapporto tra il presidente, interpretato dal celebre Angelo Musco, e la moglie allergica al calcio, che alla fine del film diviene una grande tifosa.
Il primo inno della Roma era dunque un tango argentino, ma al tempo non doveva risuonare come una melodia esotica. La diffusione del tango in Italia era tale che anche una canzone a Roma considerata tradizionale come “Chitarra Romana”, scritta nel 1935 da Eldo Di Lazzaro, era originariamente un tango. E non è un caso se Ettore Petrolini, grande attore e drammaturgo vissuto a cavallo dei due secoli, compose proprio in quegli anni il suo “Tango romano”. Più di tutti, però, colpisce l’aneddoto di un giovane Renato Rascel che, per guadagnarsi da vivere, si spacciava per cantante argentino nei cabaret torinesi. Si racconta che un giorno, avvistati alcuni calciatori argentini nel pubblico, li pregò di non “farlo sgamare”.
Sarebbe bello oggi poter sapere cosa pensavano del tango giallorosso i tantissimi argentini e italo-argentini che fecero grande la Roma nei suoi primi decenni di vita. Due di questi sono anche citati nella canzone: Arturo Chini Ludueña e Nicolás Lombardo. Chini, esterno tutto dribbling e velocità, arrivò nel 1926 in Italia con una laurea in giurisprudenza. L’Alba-Audace lo soffiò alla Juventus e, quando i biancoverdi si fusero con Roman e Fortitudo-Pro Roma, divenne il primo giocatore straniero della neonata AS Roma. Nel 1934 transitò alla Lazio per poi giocare le ultime tre stagioni della sua carriera nel Trastevere. Dopo il ritiro, si dedicò alle relazioni internazionali, arrivando a lavorare come alto diplomatico a Washington DC. Lombardo fu invece acquistato dalla Roma nel 1930, anche se la sua storia in giallorosso durò poco: nel 1932 un grave infortunio al ginocchio lo costrinse a fermarsi per lungo tempo. Ma il suo ruolo nella società giallorossa era tutt’altro che esaurito: la società lo inviò in Argentina come mediatore per il calciomercato. Lì, mentre assisteva a una partita del Racing de Avellaneda, fu aggredito da un gruppo di tifosi perché colpevole di facilitare un club straniero nel “depredare” il campionato argentino. Tuttavia, dopo aver attraversato l’oceano a bordo del piroscafo “Duilio”, il 18 maggio 1932 Lombardo approdò sul litorale romano in compagnia dei talenti oriundi Guaita, Scopelli e Stagnaro. I tre, comprati dalla Roma per fare il salto di qualità, arrivarono insieme nella capitale e insieme ne fuggirono nel 1935 per paura di finire a combattere in Abissinia. Furono visti entrare in una Lancia Dilamda, poi in Liguria su un treno per la Francia, dove si imbarcarono per tornare per sempre in Sud America. Non manca chi sostiene che a insinuare in loro la paura del tutto infondata di finire al fronte fu il Generale Vaccaro, gerarca fascista e presidente della FIGC, noché alta carica dirigenziale della Lazio.
La storia del primo decennio romanista ebbe dunque solo due passaporti, quello italiano e quello argentino, e queste sono solo alcune delle storie giunte fino ai giorni nostri. Negli anni successivi furono ancora numerosi gli argentini ad attraversare l’Oceano con il sogno di giocare nella Roma: Spitale, Provvidente, i futuri campioni d’Italia Allemandi e Pantò, fino ad arrivare al secondo dopoguerra con Di Paola, Peretti, Pesaola e Valle. Ai celebri “Piedone” Manfredini e Francisco Lojacono seguì un decennio, quello dei Settanta, di chiusura delle “frontiere” calcistiche. Negli anni Ottanta la Roma si risvegliò “brasileira”, come cantava Little Tony, e dovrà aspettare il 1993 per rivedere un argentino in squadra: è Abel Eduardo Balbo e con lui ricominciò l’unico rapporto che sia mai potuto esistere tra giallorossi e biancoazzurri, quello che su una nave collega Buenos Aires e Roma. L’apice raggiunto da questa relazione si incarna, a inizio del millennio, in una persona che è inutile nominare, perché è già venuta in mente a tutti da parecchie righe.