Il Corriere dello Sport (M.Evangelisti) – Tutte le strade portano a questa città, ma sono molto più ampie e comode quelle che conducono lontano. Mancava la seconda parte al titolo dell’autobiografia di Rudi l’Eretico, concepita come la summa definitiva di una vita che aveva raggiunto il culmine e che non sarebbe dovuta scenderne se non molto dopo, illuminata dai riflessi delle vittorie. Chi parla troppo presto, chi scrive troppo presto. Ecco Rudi Garcia che scende non dall’Olimpo bensì dal Campidoglio ed è una discesa che sa di sale per uno così. Venuto per rinnovare il calcio italiano, si era illuso di esserci riuscito, aveva illuso di esserci riuscito. Invece ha finito per farsi convertire lui, convertire e banalizzare. Due anni e mezzo più tardi la Roma è ciò che era, squadra sconfitta in fondo al fumo, purgatorio di anime pallide. Uscita dalla batosta nel derby assoluto, finale di Coppa Italia e spareggio per l’Europa, del 26 maggio 2013 allora. Infilata in un cunicolo di risultati scadenti, vanità di ambizioni e impalpabilità di gioco adesso.
POCA FANTASIA – Piena di calciatori molto migliori di un tempo, probabilmente. E a maggior ragione inspiegabile e imperdonabile nella sua assenza d’entusiasmo, che entra in assordante risonanza con quella dei tifosi la cui sparizione e il cui silenzio perforano i timpani. Quando Garcia gridò in piazza che chi contesta laziale è fece come il giocatore di tennis di medio livello. Riuscì a rispondere forte perché forte era il colpo ricevuto. Adesso ha smarrito anche la vivacità dialettica, infiacchito dal vuoto che fronteggia. O forse portava con sé una scorta troppo leggera di battute, di metafore urbanistiche e sociologiche, chiese e villaggi, derby che non si giocano ma si vincono. E altrettanta porosità nella visione calcistica. Non un numero sufficiente di idee, non la fantasia sufficiente a inventarsene. Il carillon che ha trovato nella prima stagione era pulito, armonioso, oliato. Due centrali affiatati quanto fragole e panna, difesa alta, centrocampisti scientifici e artistici insieme nell’inserimento, Totti e i contropiedisti. Tutto mosso dal carburante della rabbia. Troppo perfetto per durare, per non incepparsi da qualche parte. Forse quel calcio nuovo era sbocciato per fenomeno naturale, un’orchidea selvatica. E poi in Italia non esiste calcio nuovo che non venga rapidamente compreso e sezionato. Persino alle punizioni di Pjanic è stato trovato rimedio.
SENZA ALLEATI – Garcia può avere sottovalutato tutto questo e altro ancora. Vuole vivere a modo suo, trovarsi una fidanzata all’interno della società, liofilizzare i rapporti con la stampa – cosa per la quale era noto anche in Francia, nella molto più tranquilla provincia in cui sceglieva lui quando mettere radici e quando sfilarle – e credere a quanto gli raccontavano, che si sarebbe trasfigurato in Ferguson, che sarebbe rimasto vent’anni facendo, disfacendo, disponendo. Cose innocenti a cui chiunque ha diritto e che al momento del conto vengono fatte pagare a caro prezzo. Uno dopo l’altro nei momenti di bisogno ha visto scomparire ogni alleato, anche perché a un certo punto ha pensato lui stesso di non averne bisogno. Qualcun altro glielo hanno tolto d’autorità: preparatori, medici. Non è riuscito a trasmettere virtù che pure aveva, ha assorbito difetti, ha criticato gli arbitri, ha impartito lezioni di economia domestica a casa di James Pallotta, che considera ormai casa sua la Roma. A primavera ha messo un piede in fallo annunciando tempi difficili e invitandosi alle riunioni dei dirigenti. Ma non si aspettava che il rendimento della squadra gli s’inclinasse sotto i piedi fino alla frana, appena arginata dalla vittoria con il Genoa. Gli restano i giocatori, peraltro non tutti. C’è sempre qualcuno che paga ed è l’allenatore. Neppure questo Garcia ha cambiato nella sua missione per conto del calcio.