Diego Perotti, attaccante della Roma, ha rilasciato un’intervista a SportWeek. Queste le parole dell’argentino:
Ha mai pensato che i suoi problemi fisici siano dipesi in qualche maniera dalle pressioni cui è stato costretto fin da bambino, legate all’essere figlio del grande Hugo e al nome di battesimo che suo padre le ha imposto?
«Voglio dirle due cose. Una, mio padre non mi ha chiamato Diego in onore di Maradona. Gli piaceva, tutto qui. Allo stesso modo io non ho chiamato mio figlio Francesco in omaggio al Papa, come pensano tutti, ma perché io e mia moglie Julieta amiamo i nomi italiani. Seconda cosa: non mi sono mai spiegato l’origine dei miei infortuni, perché nessuno dei tanti medici e specialisti che ho consultato mi ha dato una risposta. Per guarire ho fatto tutto quello che mi veniva ordinato. Una biopsia prelevando del tessuto dal muscolo di un braccio. Decine di ecografie, analisi,test. Un’operazione alla schiena. Ho messo un plantare. Ho smesso con la carne e con la Coca-Cola. Dal Siviglia, in Spagna, sono tornato in Argentina perché dicevano che l’aria di casa mi avrebbe fatto bene: sono rimasto 6 mesi e ne ho passati 4 e mezzo in infermeria. Gli esami dicevano che ero a posto, io continuavo a farmi male. Ero arrivato a sperare che mi dicessero di mollare il calcio. Tutto, purché mi dessero una risposta. Sono andato dallo psicologo. E poi sono guarito al Genoa. Forse sono bastatila fiducia del club e un lavoro atletico serio».
La frase che accompagna il suo profilo Twitter recita: “Guadagnare il rispetto degli altri avendo il coraggio di essere se stessi”.
«È del Dr. House, quello della serie tv».
Lei è sempre rimasto se stesso?
«No.È un’impresa difficile da realizzare. Ma ci ho provato, e per questo ho scelto quella frase».
E in quali occasioni non è rimasto fedele alla sua personalità?
«La gente pensa che essere figlio di un grande calciatore ti faciliti le cose, se decidi di seguire la stessa strada. Non è così. Io sono arrivato ragazzino al Boca, dove mio padre aveva vinto tutto, e mi sentivo dire che, se stavo lì, era solo perché raccomandato. Questo mi ha reso diverso da com’ero: più chiuso, diffidente».
Si è scritto: Perotti è introverso.
«Posso dare questa impressione davanti a una telecamera, ma nello spogliatoio e in casa sono uno che gioca. Anche troppo. Faccio gli scherzi. I dispetti. Sorpasso il limite. Julieta ogni tanto mi implora: “Basta…”. Mia madre, che è separata da mio padre, quando non ne può più e si incazza, dice che sono uguale a lui».
Un dispetto che si può raccontare?
«Il mio compagno di squadra Salah è molto riservato e pudico. Sotto la doccia lo tormento: “Fatti baciare, fatti toccare”».
Sua moglie e suo figlio hanno certamente cambiato la sua vita: ma come?
«Nei primi anni in Spagna ho vissuto da solo. Ero giovane e Siviglia è una città piena di belle ragazze. Ho approfittato della situazione e del fatto di essere un calciatore. Io e Julieta siamo della stessa città, Moreno, ci conoscevamo da bambini ma non avevamo mai legato molto. Poi, io 21 anni e lei 19, abbiamo iniziato a frequentarci quando tornavo in Argentina per le vacanze. Per un anno e mezzo ci siamo visti a singhiozzo perché per questioni legate al permesso di soggiorno lei non poteva restare a Siviglia per più di un mese: è stata dura. Julieta mi ha dato equilibrio e tranquillità. Prima di lei non avevo mai avuto una relazione stabile. Ho capito che fa differenza tornare a casa dopo una partita andata male e sapere che c’è qualcuno che ti sta aspettando. Due anni fa ci siamo sposati, e l’anno scorso è arrivato Francesco».
Che è…?
«Tutto. Quando sentivo gli altri dire “Un amore così non l’ho mai provato”, pensavo: vabbè, parlano tutti così. Ora so che è vero. L’amore che ho per mio figlio è un sentimento diverso da tutti gli altri. Adesso se vedo un film in cui succede qualcosa a un bambino mi commuovo. Devo anche dire che i primi 3 mesi Francesco mi ha massacrato. Non dormiva mai. Facevamo a turno ad alzarci, ma mia moglie sapeva che almeno due notti a settimana avevo bisogno di riposare perché poi Gasperini, il mio allenatore al Genoa, in allenamento ci ammazzava. Così andavo in un’altra stanza. Ero arrivato al punto di presentarmi al campo senza mangiare pur di dormire un’ora in più perché Francesco piangeva fino alle 7 del mattino».
Il pallone tra i piedi gliel’ha già messo?
«Purtroppo è mancino come il nonno. Ma avrà tempo per cambiare» (ride).
Per Halloween lei si è travestito da Uomo Ragno. Perché?
«Perché fin da piccolo ho una passione per i supereroi. Al Genoa mi ero trasformato in Capitan America. Dell’Uomo Ragno ho visto tutti i film».
Di sé Spiderman dice: “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”. Quali responsabilità lei crede di avere in questa Roma?
«Per me è stato decisivo giocare subito. Sbarcai la domenica sera, poche ore dopo la mia ultima partita al Genoa, e il martedì ero già in campo contro il Sassuolo: vinciamo 2-0 e servo l’assist per il raddoppio di El Shaarawy. Era il 2 febbraio di un anno fa. La notte precedente al mio esordio ho dormito poco e male. Ero in ansia, preoccupato di essere all’altezza di una squadra come la Roma. A Siviglia giocavo in un club importante, ma non come questo. Lì potevi accontentarti di arrivare terzo dopo Barcellona e Real, qui no. A Roma devi vincere. Oggi che siamo in un momento cruciale sento di avere una grossa responsabilità verso la squadra, ma me la godo. Mi godo la possibilità di calciare un rigore, di essere decisivo».
Per lei dunque il calcio è godimento?
«Per me il calcio è sofferenza. Se gioco bene una partita non mi rilasso, voglio subito giocarne un’altra e un’altra ancora. Se al contrario gioco 90 minuti senza dare un assist o fare un gol mi sento in colpa verso la squadra. Mi chiudo in me stesso, a casa non sono lo stesso. Oggi che ho 28anni, però, la vivo in modo diverso: ora la sofferenza mi procura piacere».
Rispetto ai tempi del Genoa lei punta di più la porta: è una crescita sua o gliel’ha chiesto Spalletti?
«Se devo essere sincero, tanti allenatori mi hanno chiesto di tirare di più. Non dovrei dirlo, ma segnare mi viene difficile. E non voglio che diventi un’ossessione altrimenti è peggio. Certe volte vedo dei colleghi che tirano da posizioni per me impossibili e penso: “Ma come fa a vedere la porta? Io non la vedo”. Per me è naturale servire l’assist anche quando sarebbe più facile tirare».
Il “10” che ha tatuato sul collo rappresenta il numero di maglia che non osa chiedere a Totti?
(ride) «La verità è che questo tatuaggio ne copre un altro, un bacio che non era venuto bene. Il 10 è un numero che mi piace fin da piccolo, ma non c’entra con Totti: non mi permetterei mai di chiederlo, per rispetto suo e della Roma».
Ma lei si sente l’erede del capitano, almeno per capacità tecniche?
«No. Ho avuto la fortuna di giocare con Riquelme e con Totti ed è frustrante vederli calciare ogni giorno e sapere di non poter mai neanche avvicinare il loro talento. È come una barriera che ti separa da loro e sai che non potrai mai scavalcarla».
Con Totti siete amici?
«Non andiamo a cena insieme ma parliamo di calcio. Mi piace fargli qualche domanda, ma cerco di non scocciarlo più di tanto. Verso determinati giocatori ho un rispetto particolare. Avere un papà calciatore in un’epoca tanto diversa mi ha insegnato ad avere un certo atteggiamento. Quando sono arrivato in prima squadra al Deportivo Moron se non c’era posto in spogliatoio mi cambiavo in piedi. Oggi un ragazzino della Primavera si rifiuta di stare in mezzo quando si fa il torello, e se lo racconto a mio padre, mi risponde: “E tu non lo prendi per il collo?”. Mi mantengo a distanza da Totti: se non è lui a ridurla, non sarò io ad accorciarla».
Lui e Spalletti si sono schierati per il nuovo stadio: è fondamentale?
«Sì.Vorrei avere i tifosi più vicini al campo. Forse non lo scudetto,ma sicuramente avremmo qualche punto in più».
A fine ottobre il suo allenatore disse: «Chi di voi non riesce a reggere la pressione è pregato di cambiare aria».
«Roma è una città che ti dà pressione. Ma è una pressione che deve stimolarti, non impaurirti. Sono argentino e conosco i tifosi del Boca: qui è uguale. Non puoi accontentarti del piazzamento, devi alzare un trofeo. Ma credo che nessuno di noi se la faccia addosso. Fazio, per esempio: io sono in camera con lui. La sera appoggia la testa sul cuscino e dorme all’istante. Sono io quello che fa un paio di giri della stanza. Sono innamorato di Roma e mia moglie non sivede in nessun altro posto».
Perotti, il meglio deve ancora venire?
«Penso di sì. Spero che questo non sia il mio massimo livello. Ma è stato difficile arrivare fino a qua e, se guardo indietro, non posso che essere contento di quello che ho fatto».