Corriere.it (M.Gramellini) – Vorremmo tutti essere Totti, fuoriclasse con la faccia da buono. Invece siamo più spesso Spalletti, vittime di un’ossessione. Spalletti è come un direttore del Louvre che deve staccare la Gioconda dalla parete e metterla in una scatola. Lo fa, ma non vorrebbe. Vorrebbe, ma non ce la fa. Quel sorriso senza tempo lo tormenta. Domenica sera, nonostante la sua Roma avesse appena illuminato San Siro, ha finito immancabilmente per parlare di Totti. Di Totti che, quando entra per cinque minuti, è una vergogna che lui lo abbia fatto entrare solo per cinque minuti. Di Totti che, quando non entra, è una vergogna che lui non lo abbia fatto entrare per niente. Come l’altra sera, con la Scala del calcio che era già pronta a tributare al Capitano un’ovazione alla memoria. Se fosse stato più furbo, o meno ossessionato, Spalletti avrebbe riappeso il quadro alla parete, regalando alla folla il piacere dell’ultima ostensione. Invece lo ha lasciato nella scatola e a chi glielo faceva notare ha detto che, se tornasse indietro, non allenerebbe più la Roma. Un modo stizzito e un po’ meschino di ribadire: o me o lui. Impossibile, perché nelle ossessioni il «me» e il «lui» coincidono. L’ossessionato non può privarsi dello schermo su cui proietta le sue debolezze, ciò che avrebbe voluto essere e non è stato: il campione locale eppure universale, il venerato maestro già rimpianto mentre è ancora artisticamente vivo. L’anno scorso Spalletti disse che senza Totti se ne sarebbe andato. Forse era sincero. Di sicuro adesso se ne andranno insieme, ma ciascuno per conto suo.