La Repubblica (M. Pinci) – È uscito dal campo in mutande, la maglietta addosso e la medaglia stretta nella mano, gli occhi puntati verso il cielo. Chissà che effetto deve fare a Nicolò Zaniolo essere l’uomo del destino. Aveva scomodato la storia, José Mourinho, prima della partita. E forse sapeva che la Storia, quella con la S maiuscola, ama le tante storie che la compongono. Quelle che a volte somigliano alle favole. E a Tirana c’era una storia che andava riscritta. Perché meritava un finale diverso. Quella di Zaniolo, caduto nelle buche profondissime che il destino sa scavare. Aveva flirtato con l’Europa fin dall’inizio della sua carriera, Nicolò. Inevitabile se debutti con la Roma in Champions League, e al Bernabeu, prima ancora che in Serie A.
Se la tua prima doppietta arriva in un ottavo di finale di Champions, contro il Porto, a quattro mesi dall’esordio. Se la prima tripletta è l’apriscatole che trasforma la trappola del Bodø in un acceleratore verso questa finale. E chi doveva essere se non lui, il ragazzo a cui la sorte aveva tolto due volte l’Europeo, prima e dopo il rinvio per Covid, a decidere la finale che regala alla Roma la sua prima coppa europea targata Uefa.
“È il mio sogno da bambino, era ciò che volevo. Siamo una squadra forte, forse non sappiamo neanche noi quanto, ora ci godiamo questa serata stupenda per noi e per Roma“. Una gioia grande così, incidere in modo indelebile il suo nome su una coppa europea. Chissà che effetto ha per lui stringere quel trofeo, dopo due anni a guardare giocare gli altri, tenendo il proprio dolore tra le mura di casa con papà Igor, mamma Francesca, la sorella Benedetta, il cane, qualche amico.
Mourinho lo sapeva: aveva scelto di farlo giocare prima ancora di sapere se Mkhitaryan avrebbe retto un minuto o novanta. Perché nonostante i silenzi tra loro, un rapporto faticoso nel corso della stagione, uno come José sa che al talento non si rinuncia. Perché in notti così.