Pagine Romaniste (Nati il 7 giugno) – Quante cose può insegnare il calcio. Nei giorni che ci hanno allontanato dagli obbrobri arbitrali commessi dall’accoppiata campana, tante volte abbiamo potuto dire: Ohibò!
Una prima volta quando quell’allenatore reso celebre da una frase (A Simo’, stai sempre a piagne), pronunciata dal suo datore di lavoro, ebbro di gioia ha dovuto ammettere che: E’ come aver vinto un trofeo!
Il piacentino non ci crederà, ma per una volta siamo d’accordo con lui. Si tratta di un’affermazione che illustra perfettamente la portata del risultato. Con la fortuna che lo caratterizza, lui non è stato contraddetto da alcuno. Negli anni scorsi, quando eravamo noi ad accedere – per cinque anni di seguito – alla Champions, fino ad arrivare alle soglie di una finale sottrattaci da due arbitraggi spaventosamente penalizzanti, tutti i soloni erano lì a ricordarci che non avevamo alzato alcun trofeo. Personalmente, lo ribadisco per l’ennesima volta: la notte in cui abbiamo spazzato via il Barcellona, per un tifoso vero, vale tre coppe Italia e cinque Supercoppe italiane.
Il terzo insegnamento, lo abbiamo ricevuto venerdì sera in quel di Reggio Emilia. Per due falli identici a quelli che avevamo visto in Roma-Sassuolo, questa volta arbitro e Var hanno decretato calcio di rigore ed espulsione. Mentre scrivo, sono ancora in attesa di sapere cosa dirà l’architetto Nick Rizzoli.
Ma mannaggia la miseria, ma che te frega de ste cose, dopo quel capolavoro realizzato dal precario Fonseca e dai suoi al Dall’Ara dove, una volta, c’era il Bologna che giocava come sanno fare solo in Paradiso (per amore di precisione, quando l’indimenticato Fuffonostro -tutto attaccato – definì in quel modo la sua squadra, lo stadio si chiamava ancora Comunale e Dall’Ara era il Presidente di quei campioni memorabili).
Mi importa e come, perché la Roma continua ad essere vilipesa nei palazzi del potere, derisa da un ambiente che peggiora ogni giorno di più, oltraggiata anche da quelli che una volta erano il dodicesimo uomo in campo e da qualche anno su quegli stramaledetti social attaccano calciatori, tecnici, dirigenti e loro parenti (o congiunti) fino alla settima generazione.
Dopo l’esibizione trionfale contro l’amico della tigre Arkan, è facile intonare cori trionfali, come è facile tessere le lodi di Fonseca. Continua ad indignarmi, però, che i do di petto vengano da quelli che si sarebbero voluti liberare del portoghese.
Il mister non è il solo. Qualcuno ricorda i fischi rivolti ad Edin Dzeko, ritenuto a torto responsabile di avere relegato in panchina Francesco Totti? (France’ quel commento al tweet di Manolas dopo Napoli non è stato bello). Domenica il bosniaco ha raggiunto sul podio dei realizzatori in maglia giallorossa, il mitico Amadeo Amadei, centravanti del primo scudetto della nostra amata Roma. Il fornaretto ho avuto l’onore di conoscerlo, ma di lui ricordo l’espressione smarrita quando, mentre assisteva ad una partita, due ragazzi gli chiesero di fare da tramite con Zebina, quel giorno in Tribuna, per ottenerne l’autografo.
Amadei, uno dei più grandi della nostra storia, richiesto di fare da passacarte con uno che, qualche anno dopo, sarebbe stato oggetto di una sonora fischiata da parte dell’intero stadio. Lo avrete capito, di Bologna-Roma non voglio parlare. Straordinariamente bella, ogni mio commento la sminuirebbe soltanto.
P.S. Fuffonostro, tutto attaccato, come tanti anni dopo sarebbe stato Paolorossi. Non mi era stato simpatico, perché, lui sì, aveva sottratto immeritatamente il posto di centravanti al Bomber Pruzzo. Eppure in quelle tre partite, ci fece impazzire di gioia; ci spinse a scendere in strada a festeggiare, dopo che per un decennio le strade erano state abbandonate per paura delle P38. Ridiede speranza nonostante l’inflazione al 20%, la marcia dei quarantamila, la P2. Era solo un calciatore, ma divenne un simbolo e per una volta, una volta sola, ebbe torto Brecht, perché avevamo bisogno di un eroe in quel momento.