La Repubblica – Montella, i libri oltre la panchina: “Studio perché la tattica non basta”

In un calcio dove la televisione è sempre di più il vero stadio, l’immagine vincente del Catania è il Vincenzo Montella che dopo le partite si presenta davanti alle telecamere: dopo una vittoria o una sconfitta, sempre lo stesso sorriso e la stessa tranquillità. Aria da bravo ragazzo che sembra capitato là per caso. Montella è anche fortunato perché in tv lo chiamano sempre dopo le polemiche di Conte e le battute di Allegri. «Urlare non è il mio stile. Sono timido, riservato, non mi piacciono le sparate, non le facevo da giocatore, non voglio farle da allenatore».

Eppure l’attacco all’arbitro sembra essere diventato il copione preferito dai grandi allenatori davanti alle tv.
«Due anni fa allenavo i ragazzi della Roma e gli ho insegnato che nel calcio l’unica verità la dà il campo. La vittoria è frutto del lavoro, la sconfitta degli errori commessi. Non ci sono alibi. Quella lezione ora vale anche per me».

Ai suoi ragazzi regalava libri…
«“L’Alchimista” di Paolo Coelho. Avevano 14 anni, sognavano di diventare calciatori. Il messaggio era che i sogni vanno inseguiti con sacrificio e sofferenza. Ora ai miei giocatori non saprei cosa regalare, ma non so neanche se avrebbero voglia di leggere».

Da giocatore alla panchina, ha scelto un percorso tutto suo: in un anno diploma in ragioneria, corso di management sportivo alla Luiss, corsi di psicologia.
«E lo studio continua perché mi sono anche iscritto all’Università, Scienze motorie, ho dato otto esami».

Perché non bastava il patentino di allenatore?
«Perché il calcio è cambiato e a un allenatore non è sufficiente conoscere solo schemi e tattica. Gestire uno spogliatoio è un lavoro più complesso. Parlare con decine di televisioni e radio fa parte del mio lavoro e io devo saper comunicare. Ma devo anche capire come gestire un calciatore che attraversa un momento particolare. E non posso non sapere che a fine mese i conti della mia società devono tornare. Mourinho è un esempio: ha il controllo totale della comunicazione e della gestione della squadra».

Un lavoro completamente diverso da quello che lei ha conosciuto con i suoi ex allenatori?
«Diverso soprattutto perché sono cambiati i giocatori. Prima si ascoltava il tecnico in silenzio e si ubbidiva. Ora non è più cosi. Sono ragazzi preparati che vogliono sapere, intervenire, che devono essere convinti di quello che fanno».

Li ha conquistati così i giocatori del Catania? Sacchi racconta che ha vinto la diffidenza del Milan quando ha dimostrato che, con le sue idee, due difensori avevano sempre la meglio su quattro attaccanti. Lei come c’è riuscito?
«Parlando giorno per giorno. Raccontando il mio calcio senza imporre nulla e ascoltando le loro osservazioni. A volte anche cambiando idea».

Uno dei pochi allenatori democratici…
«Non so se sono uno dei pochi, ma io credo nel dialogo. Certo poi alla fine qualcuno deve decidere e quel qualcuno sono io. Ma ho avuto tanti allenatori che hanno confuso l’autorità con l’autoritarismo e quando il bluff è finito sono finiti anche loro. E la squadra li ha abbandonati».

Capello l’ha vista riprendere un suo attaccante che non rientrava e ha fatto una battuta: «Ora Montella capisce perché non lo facevo giocare: non tornava mai».
«Se mi avesse anche detto dove andare, io sarei tornato a coprire. I miei attaccanti sanno perfettamente dove andare».

Però per come gioca il suo Catania, lei Montella non lo avrebbe fatto giocare. Bergessio in area ci sta poco.
«Ma io non sono un integralista, non ho in testa un solo modulo di gioco. Mi adatto ai giocatori che ho. Se chiedessi a Bergessio di stare in area e aspettare i palloni, sarei da cacciare subito. Oggi un allenatore non fa le squadre, è chiamato a guidare quello che trova, i giocatori che presidenti e direttori sportivi hanno comprato. Forse solo Mourinho può permettersi di presentarsi con la lista della spesa ed essere accontentato».

Il vero potere nel calcio in Italia oggi ce l’hanno i ds.
«È vero, la fortuna per un allenatore è trovare quello bravo. Ma la società non deve solo comprare: guardate le squadre che vincono e scoprirete che sono quelle dove il tecnico è affiancato da dirigenti che lo aiutano nella gestione dei giocatori».

Nelle tabelle di questi giorni, tra le squadre in lotta per la Champions c’è il suo Catania.
«Il premio al nostro lavoro, perché tutti i punti sono stati meritati. Ma non è casuale. Abbiamo un centro sportivo tra i migliori a livello europeo e la disciplina e l’organizzazione da noi possono far invidia ai grandi club. E tutto questo nella squadra più a sud del campionato. C’è aria di rinnovamento nel nostro Paese. Perché a Catania non potrebbe cominciare dalla squadra di calcio?»
La Repubblica – Massimo Mazzitelli

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