Mazzone ottant’anni da Maestro

Corriere dello Sport (M.Evangelisti) – Universalizzatore, omogeneizzatore, controesempio perfetto per chiunque voglia rinchiudere il calcio in un’epoca, in un ricordo, in un modo di vestire, in un modo di giocare. Carlo Mazzone fa ottant’anni e non sappiamo quanto gli siano passati leggeri e veloci, che nonostante l’apparenza è sempre il modo migliore in cui ti passa una vita. Lui di sicuro è stato leggero e veloce ad attraversare il suo mestiere, mai banale e mai uguale a se stesso, irritato e ferito dalla definizione di difensivista, costruttore di squadre più elastiche che violente, di traiettorie più manovrate che verticali. Questo, manco a dirlo, gli attirò l’ira di un instancabile e spesso – ma non in questo caso – condivisibile arruffapopoli quale Zeman. D’altra parte lui ebbe gioco facile in quella circostanza a sbattere in faccia all’altro la sua vastissima esperienza andata dalla fine prematura causa infortunio dell’attività di difensore insieme rognoso e costruttivo al record di 795 partite da tecnico in Serie A, i quarant’anni o quasi passati a far abitare i medesimi spazi a Baggio e a Del Nero, a Totti e a Lanna, ma pure a Signori e a Bettarini e agli altri di quel Bologna con il quale nel 1999, alla seconda esperienza rossoblù su tre totali, arrivò alle semifinali della Coppa Italia e della Coppa Uefa.

MEMORIA – Romano di quelli in via d’estinzione e fino in fondo, dovunque fosse, dovunque lo conducesse la strada verso la panchina successiva, da Catanzaro alla Lombardia, con particolare predilezione per i posti in cui ci fosse ancora qualcosa da insegnare o si richiedesse di scavare fondamenta. Fino ad appendersi alla rete di recinzione sotto la curva dell’Atalanta restituendo pari pari e senza alcun interesse le frasi insultanti sulla madre ricevute fino a quel momento. Feroce e onesto. Con l’accento di Trastevere che oggi ormai non si sente quasi più, sostituito da un greve ibrido di discendenza televisiva. Negli anni di mezzo gli valse il soprannome di Magara. Alberto Marchesi, inviato del Corriere dello Sport-Stadio, nel 1978 gli suggerì che il suo Catanzaro poteva battere la Juventus e lui rispose così, magara, cioè magari. Finì 0-0, il risultato venne in seguito dimenticato, la frase riportata sul giornale no. Perché poi dimenticarsi di Mazzone non è mai stato facile per nessuno, non per Roberto Baggio che sul Corriere della Sera gli ha scritto un messaggio commosso chiamandolo fuoriclasse dentro, non per Pep Guardiola che lui ha allenato a Brescia insieme con Baggio e che molti anni dopo lo ha invitato all’Olimpico per una finale di Champions League del Barcellona, non per Totti che definitivamente lanciò dopo aver ricevuto l’assist da Boskov. Sono i tre giocatori che ha più tenuto sul cuore e fra i quali ancora rifiuta di distinguere il preferito. Mazzone intanto si è trasformato, rifiutando tuttavia di evolversi in qualcosa che avrebbe stentato a riconoscere, ha governato squadre complicate a Firenze e a Pescara, a Cagliari e a Napoli, a Perugia e a Livorno. Ha strappato dalle maglie alla Juve per consegnarlo alla Lazio lo scudetto del 2000 in una partita in cui l’acqua invase gli spogliatoi, Collina tenne la barra dritta sul campo allagato e il Perugia vinse facendo segnare Calori in faccia a Del Piero.

GRATIFICANTE – Non crediate, Mazzone neppure in questo è mai stato Zeman, non ha mai pensato che l’orchestra sommerga il violino, che i campioni siano zavorra. Per giustificare una sconfitta del Lecce brontolò: «Mi mancava Barbas, che a quelli che hanno giocato non gli è nemmanco parente». Quando Costantino Rozzi, l’uomo grazie al quale l’Ascoli divenne squadra di calcio d’élite, permise a Mazzone di scoprire quanto allenare fosse gratificante gli prese Dirceu, Mandorlini, Borghi, Juary. Lui ha allenato Conte e Ranieri, con il Bologna ha vinto l’Intertoto, con la Fiorentina la Coppa Italo-Inglese. In quegli anni senza televisioni satellitari e senza indigestioni web sembravano coppe preziose. Lo erano. Romano, Mazzone, ma adesso è ad Ascoli per scelta di vita, si è spaventato per il terremoto, aspetta l’estate per andare con i nipoti a San Benedetto del Tronto. Ieri ha brindato all’Ascoli che ha battuto il Cittadella, oggi brinda a se stesso. E magara fossimo tutti così amati.

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