La Repubblica (M. Juric) – Quando il destino si mette di traverso c’è poco da fare. Nonostante tu sia stato uno dei migliori giocatori della Roma per tutta la stagione. Il vice capitano. L’uomo che non tradisce, mai. Ma la finale di Budapest rimarrà per sempre impressa nella mente di Gianluca Mancini. Giano bifronte nella partita perfetta diventata incubo. Marcatore infallibile su Bryan Gil, metronomo reale della Roma sulle ripartenze e ispiratore perfetto nelle finali europee. Con l’assist decisivo per il gol di Dybala. Un’azione in fotocopia a quella vista a Tirana. Ma.
Un maledetto avversativo che spesso si insinua nella carriera di un calciatore e anche nelle finali. Un destino beffardo che ha la faccia stupita di En-Nesyri e sorridente al momento dell’autogol. Un rimpallo sfortunato, un non errore fatale per i sogni di gloria della Roma. Figlio di uno dei tanti cross di Jesus Navas, immarcabile sulla fascia destra, e del mancato colpo di testa di Ocampos.
Ma poi è arrivato l’episodio. L’ennesimo segno del destino sfortunato della Roma. Che per tutta la stagione ha basato la sua gloria sulla singola giocata. Punita nella partita più importante della stagione da un autogol. Ai rigori è arrivato stremato, sbagliando. Ma con la personalità di dire “lo tiro io”. Perché quando Mourinho ti sceglie non lo fa mai a caso. La stimmate di pretoriano dello Special One spesso segue sentieri che vanno oltre le questioni tecniche.
Toccano la personalità, l’attaccamento alla maglia, il senso di squadra. E soprattutto la cattiveria in campo, quella che ti fa dare tutto per i compagni. Mancini rispecchia l’essenza del giocatore di Mourinho. E non può essere certo un autogol e un rigore sbagliato a determinare un biennio in cui il difensore è diventato colonna intoccabile della Roma presente e futura.