La Gazzetta dello Sport (M.Cecchini) – Fu un colpo di fulmine, un breve grande amore. Nell’estate 2011 la Roma giallorossa, elettrizzata dalla nuova proprietà Usa, grazie alla voglia di scommessa dell’allora d.g. Baldini, accolse come un re quello che era considerato il delfino di Guardiola. Luis Enrique conquistò subito tutti, anche perché dava l’illusione che un pezzo di Barcellona fosse approdato per iniziare una contaminazione genetica dalle prospettive gloriose. Insomma, un sogno, tanto più che l’allenatore asturiano in ritiro sembrò solare, cortese ed anche atletico almeno quanto i suoi giocatori.
TUTTI UGUALI – Ma i giornalisti spagnoli avevano ammonito: Luis Enrique è «raro come un perro verde», cioè strano come un cane verde. Ovviamente per le abitudini del calcio e così – accettato a malincuore di fare le conferenze prepartita – limitò subito al minimo i contatti con i media e fece subito una scelta controcorrente: nonostante Trigoria sia a sud di Roma, scelse di andare ad abitare a nord, all’Olgiata, costringendosi così a lunghi pellegrinaggi quotidiani sul Grande Raccordo Anulare. Non basta. A volte addirittura sceglieva di andare a lavorare in bicicletta: 80 km fra andata e ritorno, per lui uno scherzo. Anche se Totti, scherzando, lo soprannominò «Zichichi», conquistò il gruppo introducendo metodologie mai viste e comportandosi da fratello maggiore. Per Luis Enrique furono davvero tutti uguali e lo dimostrò con formazioni sempre diverse, tanto da far nascere il «Totoluisito» (chi giocherà stavolta?).
I segnali li lanciò subito, tant’è che nei preliminari di Europa League, ad agosto, sostituì sconsideratamente Totti finendo eliminato e fischiato da tutto l’Olimpico. Non basta. Per ribadire le sue regole non convocò Osvaldo a Firenze per una lite con Lamela e mise in tribuna De Rossi a Bergamo per un ritardo nella riunione: inutile dire che quelle partite le perse entrambe. Insomma, prima di sottomettersi nel gennaio scorso alla legge di Messi (sì, l’esonero non piace a nessuno), lo spagnolo fu un vero «hombre vertical», che i tifosi, nonostante i primi modesti risultati, celebrarono il 20 novembre 2011 con uno striscione bello ma caduco: «Mai schiavi del risultato». Come tutti, invece, ne restarono schiavi, tanto che l’asturiano – dopo un malinconico 7° posto – andò via stravolto, contestato dalla maggioranza e stracciando il ricco contratto in essere da circa 1,5 milioni: un gesto raro anche questo. Certo, giocare con Kjaer, Josè Angel e Simplicio era diverso che schierare Maicon, Pjanic, Salah e Dzeko, ma questa è un’altra storia. Che ormai non interessa più a nessuno.