La Repubblica (M. Pinci) – Venti tocchi di palla, dal portiere alla porta. Venti tocchi passati per i piedi di dieci giocatori su undici. La Roma è questa: una squadra che ha scelto cosa essere, e ha un’idea chiarissima su come fare. Da Rui Patricio a Mkhitaryan, passando per tutta la squadra — ad eccezione di Sergio Oliveira, unico a non giocare il pallone in quel copione verso il gol srotolato a Marassi — fino all’ideazione di Pellegrini, la rifinitura di Zalewski e il gol del trequartista armeno.
Tanto è bastato per battere la Samp di Giampaolo: 1-0, ma non chiamatelo corto muso, come farebbe Allegri. Perché questo è il risultato “preferito” da José Mourinho, visto che quella di ieri è la vittoria numero 125 in carriera ottenuta con questo punteggio. Una specie di marchio di fabbrica, la sua impronta digitale sul processo di costruzione della Roma, che con lo stesso punteggio aveva battuto, tutte in fila, Spezia, Atalanta e Vitesse tra febbraio e marzo.
“Se ci fosse un altro allenatore la gente parlerebbe di calcio fantastico, ma siccome sono io è difficile che lo dicano“, lamenta Mourinho. Ma l’identità non è soltanto la ricerca del calcio bello da vedere: identità è sapere cosa fare per vincere la partita. L’impressione è che, col derby, la Roma abbia capito quale sia la sua strada e inizi finalmente ad avere l’anima del suo allenatore.
Come un alchimista, Mourinho ha trovato la formula magica a forza di mescolare materie prime. L’ha trovata togliendo l’unico ingrediente che pareva irrinunciabile, il talento di Zaniolo, al punto da entrarci in rotta di collisione. E ha costruito una solidità nuova, che la Roma da anni non aveva più. Nelle ultime sette partite ha incassato appena due gol, e non solo per demeriti altrui.