L’irripetibile cerimonia di un patriarca

La Repubblica (M.Crosetti) – È stata una piccola morte piena di tantissima vita, una cosa mai vista, un ingorgo meraviglioso di sentimenti e ricordi, lacrime e sguardi, soprattutto sguardi. Migliaia di occhi gonfi di pianto ne hanno cercati due più gonfi ancora. Mai così, mai, per nessuno. Una cerimonia indimenticabile riscatta la gestione scellerata di un addio, e c’è mancato poco che si rovinasse tutto: ci hanno provato in parecchi. Ma adesso è come se ognuno di noi che amiamo questo pallone come l’oggetto più bello che ci hanno consegnato da bambini, potesse abbracciare non solo Totti ma tutto il tempo che la sua presenza ha scandito, ben oltre il tifo, intanto che si viveva, si facevano figli, si amavano persone e luoghi, si guardavano partite di calcio, si stava bene e si stava male. Anche se è impossibile non invidiare almeno un poco Roma, e i romani, per quello che hanno avuto. O forse bisogna solo dire grazie a questo ragazzone ironico e buono, fragilissimo nella sua forza. «Adesso ho paura». Dirgli buon viaggio ovunque sarà, comunque sia. La prospettiva è storica, la dimensione di più. Nel momento del suo lunghissimo addio, e pare incredibile che si sia consumato davvero, Totti esce dal “maledetto tempo” che ha provato a ingannare, spesso riuscendovi, e si sistema accanto a Meazza e Piola, Gigi Riva e Rivera, Zoff e Roberto Baggio ma anche con Pelè, Cruyff, Maradona, i patriarchi della grazia e della bellezza. Perché il calcio è molto di più. Forse nessun calciatore italiano in ogni epoca è mai stato più completo e assoluto di lui, unico anche nella fedeltà a una storia d’amore, a una città, a una maglia che ieri Francesco Totti si è tolto per sempre. E dev’essere stato come scorticarsi, come un San Bartolomeo a cui abbiano strappato la pelle. Ma tutto quello che perde lui non è nulla in confronto a tutto quello che ha dato a noi. Uno così, semplicemente, mai più.

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