La Repubblica (S. Scotti) – Nel calcio “sembrare” non ha sinonimi. Sembra facile, sembra gol, sembra finita, Lukaku sembra cotto. Sembra, non è. Per i giudizi attendere il recupero, prego. Non si esulta prima del finale. E soprattutto non si segna la rete della vittoria di forza e rabbia nei minuti di recupero se non sei un grande giocatore. E sei gol in campionato non sono apparenza, sono sostanza, sono punti e fanno classifica. Fanno piangere.

Le lacrime al triplice fischio di Lukaku sono una sorpresa: grande, grosso, ma ho un cuore anche io. Una settimana così, la pessima figura a San Siro accompagnata da un’accoglienza non calorosa dei suoi ex tifosi interisti e il rigore sbagliato a inizio partita. Sembra il secondo tempo della partita del Meazza, ed è facile pensare: Lukaku è a pezzi, involuto, condizionato. Falcone lo para facilmente. Ma un cuore grande serve a poco se nessuno ti dà il pallone giusto all’ultimo minuto, se non c’è Dybala a riaccendere le speranze. Del resto si è coppia quando ci si capisce con uno sguardo, il pallone va proprio lì. E se vogliono stare insieme ci sarà un perché.

Dybala si è messo al suo servizio, gli ha lasciato il rigore, con il Lecce la scorsa stagione si infortunò tirandone uno, perché ripetersi? E poi gli ha passato il pallone incantevole per il gol vittoria che nasconde tutti i problemi di una Roma che aveva provato a mostrarsi diversa. Poi 2 minuti e 17 secondi che non cambieranno il campionato, ma cambiano la partita e forse l’umore di una squadra che sembrava in confusione. Merito prima di Azmoun, appena entrato, pronto a segnare a inizio recupero il gol della fiducia, della fede, della convinzione. E poi di Lukaku, poco prima del fischio finale, bravo a fare quello che sa fare, del resto è un lavoro sporco, che non vogliono fare in molti nella squadra di Mourinho, ma qualcuno dovrà pur farlo.