Corriere dello Sport (M. Evangelisti) – Dai, che lo hanno fatto in tanti. Segnare contro le squadre del cuore e fingere di rodersi il fegato: non avrei voluto ma è lo sport, amici, ed è il mio mestiere, scusate se esisto ancora. Paulo Dybala avanza l’attenuante di non aver segnato, pure se ci ha provato e Szczesny si è dovuto alzare da terra per impedirglielo.
Dybala ha solo esultato a fine partita per la vittoria della Roma , squadra per la quale attualmente gioca come tiene a sottolineare. È balzato in braccio a Wijnaldum, li per lì, e in seguito ha scritto due sobrie righe sui social. Poteva dare di più, durante la partita e anche dopo, e sarebbe rimasto comunque innocente, vergin di codardo oltraggio.
Invece domenica Dybala si è preso a tarda sera la libertà di esultare, il naturale diritto alla gioia, e per questo è stato digitalmente bastonato e virtualmente crocifisso. Supponiamo da sostenitori della Juventus dei quali era comprensibile l’amarezza per i tre pali colpiti e la rimonta interrotta. Ma Dybala non solo è innocente: la sua posizione è socratica. Invece della condanna meriterebbe una ricompensa vitalizia per meriti acquisiti nei confronti della repubblica bianconera.
Sette anni di scarpini consumati, infortuni superati con pazienza monastica da parte sua e da parte di chi lo aspettava. Perché è sempre stato uno che ti fa star lì ad aspettare e quando ripassa ti cambia la vita. Con la Juventus ha segnato 115 gol, 18 dei quali in Champions League.
Quasi all’inizio dei suoi secondi trent’anni, Dybala è stato sostanzialmente scartato dalla squadra per la quale aveva desiderato di diventare indispensabile e ha trovato (quasi) tutto ciò che cercava in un’altra. Alla Roma, dove è stato accolto da fumi colorati, feste di piazza, un allenatore che individua e idolatra la qualità come un orso affamato cerca il miele.