La maledizione dei grattacieli nella capitale delle mille torri

La Repubblica (P.Di Paolo) – A chi è convinto che il futuro sia delle città verticali, Roma non vuole dare soddisfazioni. Qualcuno ha iniziato a chiamarla «la maledizione delle torri». L’esempio più fresco? Il fallimento del progetto delle tre torri progettate da Daniel Libeskind per il nuovo, tormentatissimo stadio. La sequenza dei grattacieli mancati della capitale è ormai fitta. E non c’entra nemmeno più il famoso “vincolo di San Pietro” – la clausola dei Patti Lateranensi che impediva di costruire edifici più alti del Cupolone nella città storica. Sono in gioco aree distanti dal centro: il cantiere a rilento della nuova torre del rettorato dell’Università di Tor Vergata, la revoca dei permessi comunali per le Torri dell’Eur e l’abbandono del progetto da parte di Telecom, la denuncia dei rischi idrogeologici relativi al grattacielo del Torrino. Ecco, torri e torrini abbondano nella toponomastica, ma solo lì: da Tor di Valle, scenario dell’incerto stadio, alle tante Torri, i malmessi ruderi medievali, Tor Sanguigna, Tor Tre Teste, e quelle che puntellano il Gra: da Torre Maura a Torre Spaccata. E lo skyline della città eterna è un eterno fermo immagine. Un bene o un male? Certo non saranno entusiasti i Parnasi. È la famiglia imprenditoriale che ha sviluppato – tra i tanti – i progetti all’Eur e a Tor di Valle; e chissà come sarà imbarazzante avvertire il signor Libeskind che il Business Park intorno allo stadio non s’ha da fare.

Nel sito internet del grande architetto newyorchese, il rendering delle tre torri ha un’aria ovviamente avveniristica: tre edifici alti 220 metri e dialoganti – così si legge – l’uno con l’altro. L’ ispirazione? Il genio di Piranesi: «Le tre torri – ha spiegato Libeskind in un’intervista – sono state ricavate da un blocco unico, il concio, in modo che esse risultino una cosa sola se unite, analogamente agli studi di Piranesi. Piranesi aveva sempre immaginato un collegamento tra un passato ormai sepolto e un futuro eterno». Una prospettiva affascinante – su questo non c’è dubbio – ma che appare sempre meno praticabile: rovesciando Libeskind, sull’eternità del passato di Roma nessuno può avere dubbi; sulla sepoltura del suo futuro cominciamo ad averne troppi. Il newyorchese nato in Polonia conosce bene le altezze vertiginose della Grande Mela: la nuova torre del World Trade Center supera i 500 metri, il vecchio Empire è oltre i 400. Noi restiamo bassini, con i 120 metri del grattacielo progettato da Franco Purini al Torrino. Non che la bellezza e la vivibilità di una città siano riducibili a una gara di misure, ma questa Roma appesantita non riesce a slanciarsi. Alle lentezze esasperanti (sei anni ci sono voluti per la Nuvola di Massimiliano Fuksas!), agli intoppi di natura burocratica o politica, alle mani dei costruttori che si rivelano quasi mai pulite, si aggiunge una generale e ormai radicata inclinazione a pensare rasoterra. Si rassegnino cittadini, turisti e flâneur del ventunesimo secolo di Roma: ad alzare la testa – per ora – si guadagna solo il torcicollo.

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