La Repubblica (E.Sisti) – E’ una questione di rumore. Chi lo fa e chi lo subisce. A poche ore dall’inizio del campionato Lazio e Roma sono separate da due diversi rumori: la Lazio stappa bottiglie di champagne e il sughero che parte è una piccola sinfonia di metà agosto, mentre la Roma appena umiliata dal Celta Vigo e dall’ex assistente di Luis Enrique, Unzué, subisce gli impulsi insopportabili di una risonanza magnetica alla quale si sta sottoponendo da giorni per capire in quali e in quanti punti la struttura sia già lesionata, se in alto o in basso, se in difesa, a centrocampo, in attacco, in panchina, dietro le scrivanie, oppure ovunque. Domenica sera sotto la Curva Nord andava in scena la felicità di un gruppo abituato a non esagerare mai, perché all’opposto dei cugini la Lazio conosce il sapore del disastro e ci fu addirittura un giorno in cui per poco non si meritò la C sul campo. La ferita sempre aperta aiuta a non perdere il contatto con la realtà. La Roma invece non sa contenere gli entusiasmi, è sempre fuori misura, crede di aver diritto a un posto nell’empireo di chi è destinato a vincere (anche con Di Francesco in panchina). Mettendo in movimento il lato più torvo e autolesionista del cuore del tifo, è come se la piazza giallorossa fosse condannata a vivere eternamente oltre le proprie possibilità.
Dove la Lazio, partito Biglia, affida il centrocampo a Lucas Leiva, che negli ultimi due anni a Liverpool aveva giocato più da difensore centrale che da regista, la Roma vorrebbe rigenerarsi per miracolo, come se fosse il giocattolo di un facoltoso spendaccione qatarino. Si crede l’approdo per giocatori d’alto livello e non lo è. Una squadra non si assembla solo con i quattrini. Occorre anche la forza delle motivazioni, che a volta non costano niente. Facendo ruotare giocatori anziani e ragazzi ancora acerbi, la Roma smembra reparti. Che sia stato Kolarov il più positivo finora dovrebbe far riflettere. Vuol dire che agli altri non si può chiedere solidità, pensiero, cultura calcistica, personalità. Inzaghi gestisce ciò che possiede e alla fine scopre che questo è il segreto. Gli affinamenti in bottiglia della Lazio sono la conferma del percorso virtuoso. Anche i giovani spiegano parecchio. Nel presuntuoso pre-campionato giallorosso pareva che Tumminello potesse elevarsi a simbolo del cambiamento. Non sarà così. Dall’altra parte, alla prima serata ufficiale è il giovane Murgia a spingere la Lazio alla vittoria e Lotito a festeggiare con i tifosi sotto la curva. Per puntare a qualcosa è necessario che questo qualcosa non sia una sparata pubblicitaria. Chi vola basso vola, chi vola alto rischia di squagliarsi al sole.
La Roma sta già scontando il dopo-Totti con quel senso di solitudine (curioso per uno sport di squadra) che i suoi giocatori esprimono in campo quando non sanno cosa fare del pallone o faticano ad applicare gli schemi. La Lazio si esalta nel non credersi un’accolita di fenomeni, la Roma si esalta all’idea di giocare la Champions senza essere da Champions. Alla Lazio il problema Keita non incide sull’efficienza del collettivo e la modesta partecipazione di Anderson è assorbita dal sistema. Alla Roma c’è chi voleva andarsene e invece resterà. E questo il sistema prima o poi lo paga. Mentre a Formello si brinda al primo trofeo di Inzaghi allenatore restando con i piedi per terra, a Trigoria è già tempo di vertici. La questione Mahrez è solo un modo per nascondere i guai seri: il fatto per esempio che la Roma abbia i tre centrali più lenti d’Europa e che Manolas si stia adeguando, che De Rossi non può essere il perno del centrocampo e che Gonalons non è un’alternativa sicura. In questo momento Lazio e Roma sono agli antipodi. La piccola fiammiferaia s’illumina con i prosperi, i buoni propositi di Monchi sbattono con un mondo stanco di prendersi in giro. La Lazio è piccola e felice. La Roma è piccola ma non lo sopporta. Soltanto somigliando a chi non vorrebbe, la banda giallorossa può sperare di cominciare una nuova vita. Libera dal fantasma dei secondi posti.