“È l’Internazionale nera del tifo. Gli ultrà si scambiano favori, muovendosi come i black bloc”

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La Repubblica (P. Berizzi) – «Le saldature internazionali tra ultrà sono un fenomeno antico. Che adesso viene a galla in tutta la sua complessità. E che ci interroga. Anche perché è destinato a allargarsi».

Maurizio Marinelli, docente di Sociologia dello Sport all’Università di Brescia e direttore del Centro studi della polizia: può spiegarci quei 350 tifosi stranieri “ospiti” dei laziali al derby?

«E’ l’ultima versione della sindrome del beduino: il nemico del mio amico è mio nemico. Una logica che imperversa da anni nel mondo degli ultrà del calcio. Quei tifosi polacchi, bulgari e inglesi sono gemellati coi laziali. Li hanno “invitati alla partita”. Se poi ci sono gli incidenti, tanto meglio».

Non sono pochi 350 ultrà stranieri in una curva italiana. «Affatto. Il numero parla. Si spostano di lunedì. Per una partita che si gioca di pomeriggio. Oggi basta un invito in internet e si muovono in 120 dalla Polonia».

A dare manforte. O no?

«Certo. E’ una forma di appartenenza trasversale. Amici dei laziali uguale nemici dei romanisti. Vale anche per le frange più dure dei West Ham. Il collante del gemellaggio, in quello che abbiamo visto all’Olimpico, è la politica».

Tifoserie nere?

«Da sempre la curva laziale, fortemente politicizzata e vicina alla destra radicale, stringe alleanze con altre tifoserie nere. Prima gli amici erano gli ultrà di Inter e Verona. Adesso si sono aggiunti gli stranieri: i polacchi del Wisla, gli inglesi del West Ham, i bulgari che negli ultimi anni hanno fatto vedere le peggio cose».

Quanto pesa, davvero, la politica in queste alleanze oltre confine?

«Diciamo subito che non esistendo più i confini, le frontiere, i tifosi più duri sono facilitati negli spostamenti. I controlli sono blandi se non, in alcuni casi, impossibili da fare. La politica conta. In Italia gli ultrà stanno cercando di rendersi sempre meno riconoscibili e tracciabili. A questo scopo rompono, in apparenza, i fili che li riconducono e li associano a movimenti politici. Ma con l’estero il discorso è diverso. L’internazionale nera del tifo esiste, e lunedì si è visto».

Come è possibile prevedere flussi e “infiltrazioni” di ultrà di squadre straniere?

«Le polizie devono parlarsi, ci vuole un’attività di penetrazione e di informazione massiccia. Prendiamo l’Italia: le “squadre stadio” delle questure fanno un buon lavoro. Con gli altri Paesi a volte lo scambio di informazioni è meno fluido. Gli incidenti di lunedì erano pianificati. Sono avvenuti un’ora o due prima della partita, e dopo. Poteva finire molto peggio. E magari scoprivamo che i danni li avevano fatti anche gli inglesi o i polacchi. Questi si muovono all’ultimo. Arrivano in città a ridosso della partita. Come fanno i black bloc alle manifestazioni».

Si spostano solo per partite a rischio incidenti?

«Soprattutto. Il derby di Roma ormai è sempre a rischio. E’ “scritto”. E’ l’unico derby italiano che crea problemi di ordine pubblico. 1.700 agenti sono un esercito. L’hooligan inglese o polacco viene a sostenere la Lazio ma sa che quella partita può prevedere un anticipo o una coda di scontri con la polizia o coi romanisti».

Perché i gemellaggi internazionali sono un fenomeno in crescita?

«Gli ultrà cercano sponde tra di loro. Si uniscono per avere più forza negli scontri. Anche contro le forze dell’ordine. Il fenomeno è iniziato dieci anni fa, in sordina. Prima erano pochi casi, legati più che altro a amicizie e rapporti personali. Poi è diventato mano a mano un fenomeno più sistematico, ormai direi quasi strutturale. Anche gli ultrà vanno all’estero e si uniscono a tifoserie gemellate. Si scambiano favori, rinforzano le truppe, come dei piccoli eserciti».

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