Corriere dello Sport (P. Valenti) – Il 26 novembre 2000 cade l’ottava giornata di campionato. La partita che ruba l’occhio è quella che si gioca all’Olimpico alle 20.30: un Roma-Fiorentina dal carico emotivo che va oltre le ragioni di classifica, che vede i giallorossi in testa con due punti di vantaggio su una sorprendente Udinese, mentre i viola galleggiano in nona posizione. È solo da pochi mesi, infatti, che Gabriel Batistuta, ex idolo indiscusso della città medicea, ha cominciato a far sognare i tifosi della Capitale.
Un delirio di potenza cominciato poco prima dell’inizio dell’estate quando, in un’assolata giornata, il bomber argentino venne presentato davanti a una Curva Sud trepidante di sogni e vogliosa di riscattare una stagione che aveva coronato i cugini d’oltre Tevere campioni d’italia. Batistuta rappresentava il condottiero al quale affidare quel compito, potente come un leone in campo, affascinante come un re nelle movenze di una giornata ribolliva di un’aspettativa che, posta sulle spalle di uomini con poca personalità, li avrebbe affossati. Idolo indiscusso a Firenze, si diceva.
Sì, perché era stato proprio lui, negli Anni Novanta, a dare forza e dignità a una città che aspettava un profeta dopo l’addio di Antognoni e lo scippo di Roberto Baggio. Un vessillo da esporre al mondo come simbolo d’identità e di valore, al quale regalare l’amore incondizionato che le piazze senza continuità di successi concedono ai loro calciatori migliori. Tra il 1991 e il 2000 il centravanti che dopo i gol faceva la mitraglia era stato umile e orgoglioso servitore della causa viola in Serie B, capocannoniere in A, trascinatore nelle vittorie della Coppa Italia e della Supercoppa, eroe a Wembley in Champions League. Amato senza ritegno, ai limiti delle perversioni affettive che solo il tifo calcistico riesce a concepire. La sua storia con la Fiorentina si interruppe.