Il calcio alle buche, l’orgoglio ritrovato

Il Messaggero (M.Ajello) – Ragazzi, «so’ pure sparite le buche». Non solo. «Siamo Rigoglio, non più Spelacchio». Questo è l’umore dei romani, comprensivo di esagerazioni e di autoironie, ed evviva. Roma si scopre un’altra Roma. Il trionfo all’Olimpico può valere, deve vale, sta valendo come un recupero d’orgoglio. Come un calcio al pallone del declinismo e della lagna. Come l’inizio di un’azione che porti la Capitale oltre la sindrome della sconfitta e in quel ruolo da top player che le spetta non di diritto – perché la storia non fa sconti e la meritocrazia deve applicarsi anche a chi ha inventato l’Occidente e in parte anche l’Oriente – ma per le qualità che si mostrano sul campo.

IL TUFFO – La fontana in cui s’è tuffato James Pallotta a piazza del Popolo può fungere dunque, simbolicamente, da fonte battesimale di una ritrovata fiducia in se stessa non solo della Roma ma anche di Roma. La squadra che voleva vendere Dzeko al Chelsea ha rappresentato la città che non sapeva valorizzare i propri gioielli. La stessa che ha maltrattato i propri alberi (non molto più alti del centravanti giallorosso) che infatti continuano a cadere appena piove un po’. La verità è che – ogni tanto ci azzeccava – aveva ragione Sigmund Freud, quando sosteneva che «Roma è un essere psichico in cui nulla di ciò che una volta è stato può perdersi». Ad esempio lo spirito vincente. Che dopo questi anni di buio, di crisi, di mito infranto, di immagine negativa da Mafia Capitale a tutto il resto, ha possibilità di ricrearsi. Basta credere nella rimonta come ci hanno creduto i giallorossi e puntare sulla fiducia in se stessi come stanno facendo in migliaia sui social. Tra i quali una tale che si firma Genna: «La Roma mi ha insegnato che sostenere tre esami tosti nella stessa sessione è possibile». La Romantada, ecco, non va riassunta soltanto in Manolas-De Rossi-Dzeko. In questa fase di cambiamenti politico-governativi non ancora ben decifrabili, c’è in Italia bisogno di riconoscersi in Roma. Sennò non si spiegherebbero l’esultanza e l’ammirazione che i tifosi delle altre squadre e gli abitanti delle altre città stanno rivolgendo verso la Capitale. Non si è mai visto nella storia recente un fenomeno di così forte identificazione in una compagine che non è la propria da parte di numerosissimi italiani. Centinaia di bambini, uscendo ieri dalle scuole, portavano al collo la sciarpa della «Maggica». Ma alcuni di loro – ecco Francesco e Filippo, al cancello di un istituto elementare a Prati – dicono: «Io sono del Napoli», «Io sono dell’Inter». Stavolta però, per un giorno che può valere più di un giorno, hanno anche loro la sciarpa giallorossa perché la Roma e Roma – parafrasando un discorso del 1860 del conte di Cavour, che ha dato il nome alla piazza accanto a questa scuola – sono due entità che parlano a tutti, non sono riducibili a «una storia unicamente municipalistica» e vivono in una dimensione più ampia.

E guai a fermarsi, di fronte a questo evento sportivo ma non solo, al minimalista «finalmente na gioia». La prosecuzione della gioia può essere un assioma: se Roma (e la Roma) la governi bene, cresce; se la governi male, deperisce. Occorre recuperare insomma, e sembra che stia accadendo a giudicare dai discorsi da web, da ufficio, da bar e captando i messaggi d’orgoglio di cittadini ed élites, un protagonismo dal basso e di tutte le forze sane di questa città che ridia a Roma il rango che le spetta. E che sia l’opposto di quanto è stato fatto – indifferenza e auto-compiacimento su cui ironizzava Flaiano: «Coraggio, il meglio è passato» – in questi anni e soprattutto negli ultimi. I romani non possono più delegare le sorti della Capitale o rassegnarsi al fatto che, pessima espressione, la palla è rotonda. Una vittoria così responsabilizza. E spinge a sognare sogni che diventano possibili. Come questo che sta impazzando tra chiacchiere e motteggi: la Roma vince la Champions, la Lazio vince la Europa League, e a quel punto – visto che lo concedono anche per i concerti della Pausini – la SuperCoppa si gioca al Circo Massimo. Gridando «quo vadis?», al resto del mondo.

GLI OBIETTIVI – E pensare che ci eravamo fatti piccoli piccoli di fronte a Barcellona non solo come squadra. Ma come città. Assurta ai nostro occhi – ora la chiamiamo «poverina» e non solo a causa di Piqué ma anche di Puigdemont – ma fino all’altro giorno l’applaudivamo come simbolo di modernità e innovazione, mentre Roma si era ridotta a guardarla, in maniera anti-storica e innaturale, dallo sprofondo delle sue voragini. Non si tratta adesso di gridare, in preda all’euforia, «fatece largo che passamo noi». Ma almeno di prendere le misure giuste di ciò che siamo e di ciò che vogliamo.

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