La Gazzetta dello Sport (G. Dotto) – Non dovevi essere Einstein e nemmeno Marilyn Monroe (un vero genio, a partire dal sembiante più fuorviante della storia, l’IQ accertato almeno pari a quello del “collega” tedesco) per sapere che era il ragazzo di Ostia Mare il cavallo vincente. L’unico su piazza in grado di liberare Roma e la Roma dalla morsa del Lusitano e delle sue paturnie sempre più ammorbanti.
Troppe cose giocavano a suo favore, a cominciare dal Timbro supremo, quello del destino, in attesa di capire a chi spettano i diritti d’autore. Testo di una storia già scritta. Che in qualche modo, come un baco leggiadro, aveva messo la sua tana nelle teste del mondo romanista.
Daniele De Rossi aspettava di diventare l’allenatore della Roma dalla prima volta che ha detto “mamma”. Esagero (ma non troppo). Nato per essere un grande allenatore della Roma, ancora prima che un grande calciatore o qualsiasi altra cosa. Sconvolge più che altro prendere atto che, dopo appena tre settimane, la tumultuosa marea dei vedovi di José non è più che un flebile e quasi impercettibile lamento.
In questi venti giorni Daniele ha indovinato tutto. A cominciare da tutte, dico tutte, le parole che ha messo in fila come allenatore della Roma (ha sbagliato fin qui solo una cosa, a non esserci quella mattina dell’addio a Giacomino Losi, ma quella è una storia tutta da spiegare). Daniele ha cancellato Mou anche sul suo terreno. Quello dello show di parola. Da troppo tempo l’Incantatore Josè stava giocando la sua partita altrove. Ha dato spettacolo, Mourinho, a bordo campo, in sala stampa, nei social e nei diari amorosi dei seguaci, ovunque tranne che in campo. La sua Roma arrancava e sgobbava nelle sue trincee di nervi e di sudore, oppressa dal sospetto di essere ben poca cosa? Poco male. Lui, Mou, si riprendeva il centro della scena come l’istrionico padre padrone che dispensa in pubblico carezze al figlio “ben poca cosa” dopo averlo bastonato nel modo peggiore.
Cosa fa Daniele De Rossi, sin dal primo giorno del suo sogno realizzato? Spalanca le finestre di Trigoria e fa entrare il sole e azzarda i primi timidi sorrisi. Spazza via la faccia torva e le parole livide del predecessore. Il rumore del suo scontento. Sembrava una macchia indelebile. Era solo polvere. Come tutto. Daniele non si vergogna di firmare in bianco la sua felicità di essere lì. Non come un leader da idolatrare, ma come parte di un tutto a cui infondere gioia e bellezza. Lo fa capire, eccome se lo fa capire, che non è il suo altare in ballo, se ne frega di avere o no un mondo o quattro scemi ai suoi piedi.
I suoi giocatori li ama, non perché disposti a morire per lui (tipico delirio delle patologie narcisistiche), ma perché li percepisce complici e fratelli dell’impresa comune. Vi pare poco? È tutto. La rivoluzione di Daniele De Rossi nasce da qui. Ben prima e ben più profonda delle innovazioni tattiche o di formazione. Nasce dalla sovversione radicale degli umori. Quando l’umore, nel bene e nel male, non è più quello dettato da un solo uomo.
Per il resto, el gringo di Ostia Mare era già allenatore della Roma quando “rubava” da calciatore le idee di Luis Enrique e di Luciano Spalletti, la bellezza di trame che viaggiavano veloci dall’interno all’esterno e viceversa, ma sempre con l’idea di calpestare l’erba altrui. È davvero un caso se tutto oggi si allinea, se tutti hanno voglia di esserci, di guarire e di tornare in fretta? Ci saranno passaggi a vuoto. Non importa. Comunque vada domani, è tornata forte l’idea che riconcilia i tifosi romanisti con il loro vero desiderio, da Nils Liedholm a oggi. Che non è la devozione a un capo, ma l’attesa della bellezza.