Quando Luis Enrique entra in sala stampa scortato dal mental coach Tonino Llorrente che sfoggia una bella e inquietante maglietta sui Ramones — il gruppo punk più famoso d’America — serpeggia il timore di una conferenza con l’elmetto. Fuori Trigoria, tra l’altro, campeggiano due grandi striscioni: il primo che invita l’allenatore a «tornare a casa» (è in spagnolo, così non fraintende) e il secondo che dichiara i giocatori «indegni della maglia». Invece, nonostante la spinta punk e la vigilia ansiosa pre-Napoli, Luis Enrique sembra lievemente narcotizzato. Un guizzo però lo spagnolo lo riserva nel finale, forse il primo (tiepido) sfogo verso una squadra che lui ha sempre fin troppo difeso. «Per le sconfitte prendo la responsabilità per primo, ma i calciatori devono migliorare tantissimo. E portare questa maglia con più orgoglio. Tutti devono dare di più per essere all’altezza di questo tifo e questa società. Per quello che vogliamo fare abbiamo bisogno di loro. È questo il consiglio per i miei ragazzi».
Futuro & Confusione Sembra un testamento, però Luis Enrique non si sbilancia. «Non mi sono mai pentito di allenare la Roma. Per ribaltare la situazione occorre vincere le 4 partite che ci restano. Siamo settimi, ma l’obiettivo è quello arrivare in Europa League. È il momento di stare vicino alla squadra. A fine stagione esamineremo i problemi e valuteremo. I fischi e gli striscioni? Sono un professionista, non mi preoccupano: penso a non mollare fino all’ultimo giorno. Non mi sento in confusione. Questo è stato un anno diverso perché è arrivata una nuova proprietà, ma cose buone ce ne sono state. Purtroppo ci sono state troppe sconfitte, ma sono sicuro che in futuro la Roma vincerà. E sarà la Roma dei romanisti, dei tifosi, quella vera. Poca grinta? È sembrato in qualche gara, ma è una impressione. È mancata personalità, ma non si compra al supermercato. Il mental coach non è per la squadra, ma per me e lo staff: io ho lavorato e lavorerò sempre con un psicologo».
Gazzetta dello Sport – Massimo Cecchini