Il Messaggero (A. Angeloni) – Uno faceva il difensore, l’altro l’attaccante. Tre anni di differenza: Paulo è del ’73, Simone del ’76. Uno con la Roma ha a che fare da poco più di un anno, l’altro nella Lazio si è formato, ha vinto da calciatore, si è inventato allenatore, ha i colori nel cuore e la gente dalla sua parte. Roma è la sua città ormai. Mentre per Paulo non ancora, forse lo sarà, chissà. Ci ha messo un po’ a farsi apprezzare in toto, il portoghese, che ha pagato la lunga crisi della Roma, cominciata lo scorso gennaio. Non dava segnali di adeguatezza, anzi. Sembrava travolto dagli eventi. E a tratti, lunghi tratti, specie nella calda estate del Covid e del cambio di proprietà, tecnico “sopportato“. Insomma diversi nella storia, meno nel porsi come allenatori, maestri di calcio e comunicatori. Fonseca e Inzaghi si toccano, si annusano, sono due rivali silenziosi. Almeno fuori dal campo. Simone corre, urla, abbraccia, cerca il contatto fisico con i suoi giocatori, fa il fratello maggiore, ma fuori dal terreno la voce è sempre bassa, spesso rauca. Fonseca non ama gli abbracci, in questo è più freddo, e davanti ai microfoni mostra sempre una certa signorilità, con quell’accento portoghese. Sono simili anche in certi aspetti tattici, ora. Fonseca ha mollato il calcio champagne ed è passato alla difesa a tre, come Simone fa praticamente da quando allena la Lazio: uguali anche i due fantasisti dietro la punta, Mkhitaryan e Pedro alle spalle di Dzeko nella Roma, Correa e Milinkovic che girano attorno a Immobile nella Lazio. La Lazio però fa della ripartenza la sua filosofia, la Roma no, ma nel contropiede trova spunti. Il prossimo non sarà il derbu degli uguali, ma almeno dei simili.