Corriere dello Sport (I. Zazzaroni) – La scena è questa. Le squadre stanno rientrando in campo dopo l’intervallo, Mourinho supera la fila dei giocatori del Lecce, incrocia Hjulmand, il capitano, e sorride dandogli il cinque. L’arbitro Aureliano rivolgendosi al tecnico: “Ti dovevo ammonire”. “Ehhh!?“, è la risposta di José. Aureliano si gira verso il centrocampista danese e dice – il labiale è chiarissimo, lo riporto testualmente -: “Quante partite ha? (il soggetto è Mourinho, nda), che cosa ha vinto nel mondo? Dove ha giocato a calcio? Dimmelo… Quindi quando uno diventa grande così…” e porta l’indice della mano destra all’altezza della tempia, come a dire “questo è intelligente, ha cervello“. L’organo poco usato da tanti, in particolare dai fegati spappolati che frequentano il nostro calcio.
Scena o scenetta a parte, due parole sulla partita. Non è stata bella. La Roma ha creato molto di più: Falcone ha evitato in almeno tre occasioni la sconfitta, mentre Rui Patricio, subìto il gol iniziale, si è limitato a qualche lancio, un paio dei quali sbilenchi: in effetti la squadra di Baroni, tonica e aggressiva (24 falli a 8), è quasi sempre rimbalzata contro Smalling, Ibañez e compagnia.
Solbakken ha qualità tecniche e fisiche, ma ha sempre giocato nel 4-3-3 aperto in fascia. Non può fare il lavoro di Zalewski e El Shaarawy perché non ha attitudini difensive e in avanti non si è mai mosso tra le linee come Pellegrini e Dybala. Proviene da un altro calcio e quattro settimane di lavoro non sono state sufficienti per farlo entrare in un’organizzazione che non conosce.
Quello che colpisce della squadra di Mou, che ha 6 punti in più e quattro sconfitte in meno rispetto alla scorsa stagione, è la ricerca della praticità, l’essenzialità e l’applicazione con cui prova a superare i propri limiti: i princìpi sono giusti, perfetto lo sfruttamento delle risorse mentali e fisiche. Non ruba l’occhio perché abbina l’attenzione difensiva alla costruzione in sottrazione e alle giocate dei suoi risolutori.