Corriere dello Sport (R.Maida) – Undici uomini in undici moduli. Il calcio è più statistico che matematico: non è una scienza esatta perché alla logica dei numeri abbina il fascino della creatività e dell’imponderabile. E così diventa un falso storico, oltre che un luogo comune, la definizione di Eusebio Di Francesco integralista. Che ha imparato ad amare il 4-3-3 a forza di esperimenti e di “musate”, ma non lo ha mai considerato un dogma incontrovertibile nella sua carriera di allenatore. Da Lanciano a Trigoria, dalla Serie C alla Champions League, ha usato appunto 11 sistemi di gioco diversi.
ABIURA? – Ha fatto molto discutere la svolta di Verona, con il passaggio al 4-2-3-1 e Nainggolan nella posizione spallettiana di trequartista. Ma il modulo rappresenta una variante sul tema principale, non una rivoluzione: si tratta solo di invertire il triangolo del centrocampo, con vertice basso o vertice alto. Lo stesso dicasi per il 4-1-4-1 a cui spesso ricorre, quasi sempre nella fase di non possesso, facendo scalare il mediano a copertura degli inserimenti tra le linee. Il problema, come sempre, è di interpretazione e di baricentro. Nainggolan se parte qualche metro più avanti in teoria può aumentare il tasso di pericolosità: eppure anche nelle due partite giocate dietro a Dzeko, contro Napoli e Verona, non ha mai preso la porta con i tiri. Semmai il 4-2-3-1 è apparso più adatto all’equilibrio tattico di una squadra che non possiede un regista classico: non lo sono Strootman e Pellegrini, non lo è De Rossi, potrebbe diventarlo Gonalons se riuscisse a cancellare i primi delicati mesi di adattamento al calcio italiano.
PASSATO – Ma Di Francesco osserva e interviene, pure a partita in corso. In diverse occasioni ha già alterato il 4-3-3 trasformandolo in un 4-2-4 per sfruttare i tre centravanti della rosa e quindi Schick e Defrel dopo Dzeko. E in un paio di situazioni, quando doveva conservare un risultato, è addirittura passato alla difesa a tre con due terzini sulle fasce: più 5-3-2 che 3-5-2. E’ successo in Champions all’Olimpico contro l’Atletico Madrid e in campionato, più recentemente, a San Siro con l’Inter. D’altra parte, nel suo percorso evolutivo di tecnico, Di Francesco ha provato di tutto: a Lanciano giocava spesso con il 4-4-2, tra Lecce e Pescara si è orientato verso la difesa a tre e anche il centrocampo a rombo (4-3-1-2) o ad albero di Natale (4-3-2-1).
CORAGGIO – La grande novità emersa domenica è stata piuttosto la gestione della partita in inferiorità numerica. Perso Pellegrini, un centrocampista, Di Francesco avrebbe potuto sostituire uno dei tre attaccanti per conservare l’equilibrio tattico a centrocampo. Una soluzione poteva essere l’inserimento di Bruno Peres per uno dei due esterni offensivi con l’avanzamento di Florenzi a centrocampo. Invece ha lasciato per qualche minuto in campo Ünder, chiedendogli lo sforzo di partecipare di più alla fase difensiva contro il terzino Fares che stava salendo di posizione di tono, e poi ha fatto entrare Gerson senza mai rinunciare all’idea principale: segnare il secondo gol per mettere al sicuro la partita. In questo modo la Roma non si è rintanata nella propria metà campo a proteggere il vantaggio, il Verona non ha potuto alzare il baricentro e costruire pericoli degni di questo nome e il risultato non è mai stato messo in discussione. Se poi sull’ultimo calcio d’angolo la Roma avesse preso gol, si sarebbe parlato di presunzione dell’allenatore, dopo due occasioni clamorose per il raddoppio sprecate. Ma il rischio era calcolato: dopo alcuni errori del recente passato, Di Francesco non voleva infondere paura e timidezza a una squadra già frastornata.