La Repubblica (F.Bocca) – Chi avesse letto il profilo Wikipedia di Eusebio Di Francesco nella notte di sfrenato sabba barcellonesco avrebbe trovato che il nostro ha già vinto la Champions League 2018 e che i tifosi gli hanno eretto una statua al centro di Roma. Trattasi di fake rapidamente cancellato ovviamente, di burla che accresce ancor di più il mito dell’allenatore che in soli 90’ ha fatto un pezzo di storia della Roma. Dopo essersi dato del pazzo per le decisive invenzioni strategiche in partita, per averla diretta e interpretata quasi fosse il maestro Muti o il generale Patton, l’Eusebio ha abbracciato uno per uno orchestrali o soldati che fossero sulla porta dello spogliatoio. Con le pacche a manone aperte di Nainggolan o Alisson che hanno messo duramente alla prova il suo costato.
Da dove tragga forza e genialità non si sa, l’Eusebio studia schemi ma non entra negli schemi. Sta all’allenatore star, come un onesto e anonimo impiegato di banca sta allo squalo Gordon Gekko in Wall Street. Oppure potrebbe essere uno di quei nerd del computer cui nessuno fa caso ma che possono scatenare una guerra mondiale. Attento a tutto, dal look alla comunicazione, ma regolare, strepitosamente medio, mai esagerato, quasi stucchevolmente educato. Pur avendo imparato il mestiere dalle parti di Zeman e Spalletti non ha quasi niente di loro. Come dirlo? Ecco, non vedrete mai Di Francesco vestito come un giovanilissimo Spalletti dalle parti di Piazza Duomo a Milano. Non ha nessuna voglia di stupire, anzi. Probabilmente perché essendo stato un bel portatore di borracce anche in serie A non ha il mito dell’allenatore. E sa che nessuna invenzione – tanto meno un 4-3-3 o un 3-4-1-2 che sia – varrebbe niente, se non avesse la più totale dedizione dei tuoi giocatori. «Dobbiamo aumentare la credibilità verso quest’uomo – ha detto Florenzi – da parte di noi giocatori c’è sempre stata». Forse anche gli schemi hanno un cuore. Sicuramente incide il gene tosto abruzzese. Sambuceto (Pescara) non è esattamente New York, anche se in zona c’è l’Aeroporto Internazionale d’Abruzzo. (Detto per inciso, il sindaco del capoluogo San Giovanni Teatino vorrebbe organizzare una celebrazione con festa in piazza per l’illustre concittadino). La sua vocazione era quella di calciatore, e infatti il padre lo battezzò come la Perla Nera del Benfica. E da coppiano mise pure un Fausto a un altro figlio.
Ma Di Francesco non era pienamente convinto del mestiere di allenatore, avrebbe persino potuto accontentarsi delle attività di famiglia: un albergo, uno stabilimento balneare. Poi è chiaro, viene il momento in cui lo spirito del pallone ti illumina e ricominci da capo con la gavetta da tecnico. È quel percorso mistico di sacrificio che fa degli italiani degli straordinari strateghi da panchina. Di Francesco, ex centrocampista e dunque più degli altri portato alla visione e organizzazione di gioco, è uno zemaniano convinto – salvo poi avere il coraggio di ripudiare il Maestro al cospetto del Barcellona – ma dentro puoi trovarci il mestiere di Lippi, Cagni, Scoglio, Orrico, Fascetti. Tutto. Quel sapere che parte solitamente dal basso e poi conquista il mondo. Come Ancelotti, Trapattoni, Capello, Conte, Lippi, Mancini, Ranieri. A occhio il figlio Federico, classe 1994, centrocampista del Bologna, potrebbe fare il suo stesso percorso. Intanto l’idea folle del travet della panchina che vuol vincere la Champions sta facendo impazzire il calcio. L’Eusebio ringrazia dei complimenti, è gentile, incredibilmente modesto. Praticamente un mostro.