Pagine Romaniste (F. Belli) – 10 anni sono tanti. Un arco di tempo in cui può accadere di tutto. In cui si può passare dall’apice al fondo senza neanche rendersene conto. Un fondo fatto di immensa tristezza che viene dalla solitudine del cuore. La tragedia è che ogni giorno, da quel 30 maggio del 1984, è morto qualcosa dentro Agostino. Quella partita maledetta è stata solo l’inizio. Quel giorno era lucido, calmo, ben conscio di giocarsi a casa sua la Coppa dei Campioni. Alla lotteria finale fu uno dei pochi a non sbagliare, centrando dal dischetto il rigore che portava la Roma momentaneamente in vantaggio e a pochi secondi dall’afferrare un sogno. Avvicinandosi dal dischetto metà stadio, ma forse anche più della metà, iniziava già a esorcizzare la paura incitando il suo capitano come faceva sempre prima di ogni tiro dagli undici metri: “Oh Agostino! Ago-Ago-Ago-Agostino gol!”. Nino non aveva paura di sbagliare quel calcio di rigore. I compagni si però, e il finale è tristemente noto. Qualche settimana dopo segue Liedholm al Milan dopo che il nuovo allenatore Eriksson lo aveva messo alla porta. Dietro quel centrocampista formidabile c’era anche una grandissima persona, silenziosa ma vera. Del resto le parole si parlano e i silenzi si toccano. Quella leggerezza con cui fu lasciato andare però, Agostino, non la dimenticherà mai.
Il “tradimento” e il perdono di un popolo che avrebbe dovuto capirlo
La stagione seguente in un Milan-Roma segna ed esulta. Un’esultanza rivolta a chi lo aveva ceduto non credendo più in lui e non ai tifosi, che però non possono comprenderla. Quel giorno, con quel “tradimento”, si crea una frattura insanabile che sarà perdonata solo alla fine della storia purtroppo. E’ il 30 maggio del 1994, sono passati esattamente 10 anni da quella finale. Agostino si è ritirato e da anni vive in una villetta di Castellabbate. Come tutte le mattine si alza dal letto presto, non aspetta la compagna per scendere e va subito in bagno ancora in vestaglia. In tasca ha una Smith e Wesson Special e dei bigliettini. Li strappa, prende la pistola dalla tasca e fa partire un colpo dritto in petto, dritto al cuore. Si è scritto molto del perché di quel gesto, affari sbagliati, solitudine, fiumi d’inchiostro e pagine di giornali. L’unica certezza è riposta in uno dei bigliettini strappati ricostruito a fatica: “Mi sento chiuso in un buco”. E’ stato lasciato solo Ago, e lui se n’è andato. Gianni Mura scrisse: “I veri capitani possono morire o anche scegliere di morire, ma dimenticarli è impossibile”. Non lo dimentica chi gli ha voluto bene e non lo dimenticano neanche i tifosi della Roma. Neanche i più piccoli, che attraverso la memoria di chi racconta lo vedono ancora in campo sorridente e schivo com’era lui. Tranne chi un padre non c’è l’ha. Proprio come Luca, che da quel 30 maggio del 1994 non smetterà mai di ricordare chi era Agostino.