Nel segno di Totti, Anderson, Mauri, Strootman, un derby arricchito da giocate sublimi e da scempiaggini collettive, prove di forza e ritirate, coraggio e paure. Un derby che ha fatto brillare gli occhi e deluso al tempo stesso, esaltato e impaurito in egual misura, ma con conseguenze più pesanti per la Lazio, che aveva praticamente già vinto. Un derby che ha spostato democraticamente l’entusiasmo da una curva all’altra, dove s’è applaudito per il magico scavetto di Anderson, imprendibile per quaranta minuti, col quale il brasiliano ha regalato a Mauri il pallone della prima rete del pomeriggio, dove s’è rimasti a bocca aperta dinanzi all’acrobazia di Totti, qualcosa che forse nessun calciatore di alto livello s’è mai sognato di effettuare, e nemmeno di concepire, a 38 anni, un gesto geniale, di feroce istinto, in pieno controllo psicodimanico, che ha ricordato bellezze lontane, inusitate, quasi inadeguate per la normale poesia del calcio, come la spaccata di Cruyff contro l’Atletico di più di quarant’anni fa. Un derby pazzo, diviso perfettamente in due come le coppe di gelato degli anni Sessanta, dolci ognuna a modo suo, eppure separate per sempre, anche in bocca, un derby in cui prima la Roma e dopo, forse più colpevolmente, considerato il doppio vantaggio, la Lazio, si sono consegnate all’avversaria, mostrando pregi e difetti del proprio repertorio, senza passare da stazioni intermedie.
La Lazio è stata tatticamente perfetta nella prima parte, nei suoi eleganti sincronismi di cinica creatura in attesa del cadavere del nemico. Corta, concentrata, ha aspettato che la Roma giocasse e sbagliasse palloni inauditi, poco reattiva e impoverita da centrocampisti irriconoscibili (soprattutto Pjanic e Nainggolan). Animati dalla loro luminosa semplicità, i biancocelesti ripartivano sempre minacciando, con Mauri a galleggiare fra i reparti e a rimarcare gli ormai cronici limiti di De Rossi, e con Anderson a trasformare la superiorità numerica in pura formalità. In pochi minuti Mauri e Anderson, alternandosi all’assist per il compagno, si sono staccati dalla Roma. Lo strappo pareva troppo largo per essere ricucito. Nell’azione del raddoppio era bastato un bel tacco di Mauri per smascherare l’angoscia difensiva della Roma, di cui era responsabile il centrocampo, non la difesa. Non avendo dovuto correre più del necessario, era impensabile che la Lazio franasse come contro l’Inter. Invece è successo ancora. Tradito da almeno tre suoi gioielli, a Garcia è stato sufficiente inserire Strootman e Ljajic. Davanti all’olandese, lineare e devastante, Biglia e Parolo sono arretrati come due agnellini, facendo abbassare l’intera squadra (salvo nei minuti finali), Radu e Basta l’hanno pagata a caro prezzo. Spaventata forse anche dalla propria incapacità a gestire un’intera partita, benché avanti, la Lazio ha perso aderenza lasciando a ogni singolo giocatore della Roma spazio in abbondanza e almeno un’occasione a testa per ritrovare fiducia e gambe. Due cross da sinistra, uno basso di Strootman e uno alto di Cholevas (eccellente nella seconda parte), hanno liberato Totti che prima del “selfie” ha scattato due foto a Marchetti, una delle quali da posizione inaudita. La Lazio aveva preso un palo di Mauri sul 2-1. Alla fine il filosofico Maicon, preda di qualche demone, ha costretto De Sanctis a salvare su Klose. La Lazio aveva vinto, la Roma non ha perso. Due a due. E nemici come prima.
La Repubblica – E. Sisti