Da Luis Enrique a Vincenzino Montella: una modesta proposta in forma di decalogo per sprogettare la Roma. Ovvero, come trasformare un progetto che langue in un’impresa che vince.
1. L’obiettivo è allevare un gruppo di guerrieri e non di bravi ragazzi che non si picchiano tra di loro, non sputano al nemico e non fanno tardi alla lezione. Rifondare il mondo in quanto calcio è un’utopia ragazzina nemmeno interessante. Più interessante è rinforzare quello che c’è dentro il torace degli uomini. Concetto più kantiano che contiano. Il dovere morale di scrivere al meglio la propria biografia, più che la parodia del generale Patton. A tal proposito, proiettare a Trigoria almeno una volta al mese “I sette samurai” di Kurosawa.
2. Una società di calcio non è una onlus. I suoi dirigenti non sono tenuti a certificare le virtù umane del loro allenatore, ma la sua idoneità a condurre un’impresa che brucia passioni enormi oltre che ingenti denari. I dirigenti siano forti dietro le quinte e autorevoli in pubblico. Liberare la voce e alzarla quando serve, non solo per incensare la propria anima bella, tipo “l’allenatore non si discute”, “dell’arbitro non si parla” o l’insopportabile manfrina del “è tutta colpa mia”. A condurre un’impresa come la Roma ci si destina più volentieri all’inferno che al paradiso.
3. In alternativa a Kurosawa, proiettare alla vigilia di ogni partita le immagini domestiche di Rosaria Filippi. Chi è Rosaria Filippi? Tifosa romanista, pensionata, vedova e abbonata da sempre alla Tribuna Tevere. Quando la squadra gioca fuori, cade in trance dalla mattina. Un’ora prima stacca il telefono, sbuccia una mela, sistema il poster di Totti sul comò, la coperta di lana con il lupetto sulle gambe, indossa la maglia di Falcao e la sciarpa giallorossa come fosse una stola. Spegne la luce e si predispone a soffrire da sola, in silenzio. Ha pianto, l’ultima volta, dopo Juventus-Roma. Infliggere la visione di Rosaria ai giocatori. Minacciare, in caso di ribellione, l’arrivo di Delio Rossi.
4. Il cerchio magico prima della partita. Trasmissione del fluido. Bello. Ma, come tutte i gesti rituali, o funziona o diventa una forma vuota da liquidare in fretta. Invece di un guerriero rischi di sentirti un cretino. Meglio, molto meglio, al riparo dello spogliatoio, togliersi quelle stupide cuffie, cacciare le telecamere di Sky e urlarsi, ma anche sussurrarsi, tutto quello che è necessario, ma proprio tutto. Senza peli, guardandosi negli occhi (prima della partita e non all’intervallo, quando già quasi tutto è perduto).
5. Se proprio le cuffie ci devono stare, imporre le musiche giuste. Non c’è bisogno di Wagner (non si tratta d’invadere la Polonia o forse sì, ma questo riguarderà l’azzurro De Rossi e forse Borini). Le musiche per un gruppo guerriero devono essere energia o evocazione, a seconda del momento. Si può andare dai Metallica all’infallibile Boss, Bruce Springsteen. Ottimi i Doors e la chitarra di Jimi Hendrix, ma in certi casi può funzionare anche il Modugno di “Dio come ti amo” o il Ranieri, Massimo non Claudio, di “Rose rosse”. Più che il mental coach, serve un musical coach. Inutili certi giuggioloni da girotondi e pacche solidali, dozzinale psicologia di sostegno, robaccia di scuola americana. Basta un allenatore capace con le parole di scavare solchi nella carne. Mourinho è un inarrivabile mental coach.
6. A proposito di Daniele De Rossi. Fondamentale restituirlo in tutti i modi possibili alla sua fama e alla non meno sua fame, anzi sete, di vampiro a caccia di sangue calcistico nemico. L’ultimo De Rossi sembrava un vampiro esposto alla luce. Pallido, svuotato, le occhiaie fonde di chi ha perso il suo habitat. Riportarlo al piacere della foresta buia, feroce e primitiva che è il calcio, il suo calcio.
7. Ancora a proposito di De Rossi. Responsabilizzare i leader di una squadra. Uomini come lui non vanno mai messi alla gogna come scolaretti. Errore catastrofico quella volta a Bergamo. Una prova di debolezza, altro che forza. De Rossi fu allora molto leale nel dichiararsi rispettoso del suo allenatore, ma la ferita ha continuato a buttare sangue. Nonostante lui.
8. I media a Roma. Sono tanti, impossibile ignorarli, inutile biasimarli o esorcizzarli. Nei loro eccessi sono un animale dall’istinto intelligente, fiutano la debolezza, il carisma o l’inadeguatezza. Non vanno blanditi, ma nemmeno elusi o temuti. Vanno affrontati virilmente, muro a muro, parola contro parola, senza debolezze, con la necessaria ironia, vedi il miglior Spalletti o il magnifico Liedholm.
9. I tifosi della Sud. Sono stati la cosa più bella di questa deprimente stagione. Non vanno corteggiati con meste passeggiate sotto la curva, tanto lodevoli quanto inutili, del non saper che fare o che dire, ma risarciti ogni santa domenica con furibonde imprese. Dopo di che, sì che ha senso proclamarsi “mai schiavi del risultato”. Almeno quattro volte (Fiorentina, Atalanta, Lecce e Juventus) le squadre avversarie hanno smesso di giocare con la Roma. Questo è insopportabile.
10. I calciatori che arrivano, anche i più blasonati, prima di essere vincolati, devono subire una radicale ispezione. Fuori e dentro la cassa toracica. Capire se sono in grado di capire cosa voglia dire essere giocatori della Roma. Non voglio dire che devono firmare col sangue, ma è esattamente questo che voglio dire. Non è poi nemmeno così doloroso.
Corriere dello Sport