La Repubblica (P. Torri) – Giovedì diciotto aprile 2024. È la nuova data da inserire nel calendario di chi ha il cuore mezzo giallo e mezzo rosso. A caratteri cubitali. Anche se, per ora, non c’è nessun trofeo da portare in giro. Ma prima in mattinata l’annunciato rinnovo contrattuale di De Rossi invocato da settimane da una tifoseria straordinaria poi impreziosito dalla qualificazione, strameritata da parte di una squadra che ha giocato con la testa, il cuore, la pelle, l’anima, in inferiorità numerica per oltre un’ora considerando anche recuperi infiniti, alla semifinale di Europa League eliminando il Milan, oh il Milan, vincendo entrambe le partite, sono la somma di una giornata romanista come ce ne sono state poche in passato.
Un trionfo europeo a cui la Roma ci ha abituato: due finali, una Conference League in bacheca, un’Europa League negata solo dall’incompetenza di un arbitro; quarta semifinale consecutiva con il passaporto in tasca, nel terzo millennio nessuna squadra italiana è riuscita nell’impresa.
De Rossi è stato capace, nelle diciassette partite fin qui disputate, di restituire una squadra al calcio, valorizzare un’intera rosa che era stata descritta, salvo poche eccezioni, come una banda di scappati da casa, superare tre turni europei, risalire in classifica dal nono al quinto posto (che da ieri sera è ufficialmente buono per la qualificazione alla Champions), vincere un derby che ci sta sempre bene, dare un’identità e un’anima a un gruppo che negli ultimi mesi era stato offeso e umiliato dall’egocentrismo di un tecnico che stava sbagliando tutto.
Tutte cose che hanno capito alla perfezione anche i Friedkin. A partire dal presidente Dan che, insieme al figlio Ryan, a poche ore dalla sfida di ritorno con il Milan, con l’ormai certificato stile di stupire anche i più stretti collaboratori, aveva annunciato al mondo che De Rossi continuerà a essere l’allenatore della Roma.