Il Messaggero (M. Cecchini) – Non sarebbe stato adatto a questo tempo eccessivo. Pier Paolo Pasolini, che eccessivo lo era davvero in un’epoca in cui per diventarlo occorreva pagare un prezzo molto alto, immaginiamo che non avrebbe retto l’urto di questa Italia. E alla vigilia di una sfida fra Bologna e Roma che lo avrebbe attratto, anche la sua passione per il calcio sarebbe stata bersaglio di sberleffi.

Le discrasie sentimentali di Pasolini le aveva raccontate il poeta Aldo Onorati in questo modo: “Quando veniva a trovarmi ai Castelli Romani, si finiva per parlare anche di calcio. Io tenevo alla Lazio, squadra che lui, tifosissimo del Bologna e simpatizzante romanista, non vedeva proprio di buon occhio.

Pasolini il pallone lo aveva nel sangue da ala destra di tanta corsa e buona tecnica che da ragazzo aveva sognato da emergere (“mi soprannominavano Stukas“, racconterà), lasciando in eredità all’adulto la voglia di giocare a calcio in qualsiasi momento. Il pallone per lui era amore vero, “che viene subito dopo l’eros e la letteratura. Se non fossi ciò che sono, avrei voluto fare il calciatore“.

Approdato nella Capitale, anche all’Olimpico Pasolini trovò casa. Nel 1957 fu addirittura inviato per “L’Unità” a raccontare un derby che la Roma vinse 3-0. Andava in curva con Sergio Citti e suo fratello Franco, oltre che con Ninetto Davoli, appuntando su un bloc-notes quelle espressioni romanesche che lo incantavano e che sarebbero riapparse in romanzi come “Ragazzi di vita” o “Una vita violenta”. Nelle borgate che descriveva erano quasi tutti romanisti, tanto che il tifo biancoceleste era un insulto.

Per lui i romanisti più commoventi erano gli immigrati dalle campagne e dal Meridione: “Il loro amore per la Roma strappa le lacrime. L’amano disperatamente, e gridano poco: ingoiano dolori e macinano gioie in silenzio“. È vero, Pasolini ci manca, ma forse è un bene che questo calcio volgare del Terzo Millennio gli sia stato risparmiato.