Da Reina a Szczesny: porte chiuse agli italiani

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Il Giornale (T. Damascelli) – C’era una volta il gioco del pallone e quando uno proprio non ci sapeva fare gli veniva suggerito: «vai in porta». Vennero poi portieroni magnifici, le leggende di Zamora e Jashin, di Combi e Sentimenti II e IV, di Buffon, il primo, e Ghezzi che si scambiarono, a Milano, maglia e fidanzata poi moglie; di Pizzaballa (per la figurina introvabile) e Cudicini black spider, di Panetti tiramolla e Mattrel (il primo con la maglia bianca), quindi Albertosi e Zoff e poi Buffon, l’ultimo, e Donnarumma.

Come avete letto, a parte i due fenomeni iniziali, il grande catalano e l’immenso moscovita sovietico, trattasi di tutta roba buona nostrana, italiana al cento per cento. La globalizzazione ha stravolto tradizione e scuole, siamo invasi da portieri di ogni dove. In principio fu Taffarel, campione del mondo pervenuto a Parma su idea imprenditoriale di Calisto Tanzi che in Brasile aveva interessi di espansione, con il calcio (si comprò il Palmeiras) e con il latte in tetrapak al punto che la maxifoto di Taffarel, che succhiava con la cannuccia il lattao meravigliao made in Italy, riempì cartelloni pubblicitari in ogni parte del Brasile. Taffarel era uno buono di mani e di piedi, non era bellissimo di stile ma efficace nel mestiere, non così altri suoi compatrioti che vennero in seguito, potrei dire subito Dida per fare l’esempio migliore. Oggi basta leggere i nomi e i cognomi dei portieri delle prime quattro in classifica per scoprire che non c’è traccia di italiano, si va da Reina a Handanovic, da Tatarusanu a Szczesny, tutti, di sicuro almeno per i loro diesse e allenatori, migliori delle riserve italiane. Ma quanti di costoro, cioè dei foreign keepers e non soltanto, saranno fedeli nei secoli al loro club come accadeva per anni?

L’elenco non è lunghissimo come confermano le tabelle ma la storia più curiosa è quella di Ottavio Bugatti che con il Napoli giocò 256 partite (mica presenze, come si usa dire e scrivere oggi, ma partite intere) per poi ritrovarsi con due scudetti, due coppe dei Campioni e due Intercontinentali grazie all’Inter con la quale non giocò la finale del Prater a Vienna contro il Real Madrid nel ’64, nonostante Nicolò Carosio continuasse a citarlo in porta per tutto il primo tempo. Sul foglio di gara, consegnato alla stampa e al telecronista più famoso della storia, era scritto Bugatti. Carosio non controllò l’identità del numero 1 e per quarantacinque minuti regalò gloria imprevista al portiere di Lentate sul Seveso. All’inizio del secondo tempo Nicolò informò i telespettatori : «Vi accenniamo ora a quanto è accaduto a Sarti, per fortuna niente di vero su quanto avevamo accennato noi e cioè il riacutizzarsi del male che lo aveva afflitto negli scorsi giorni ma semplicemente in fase di allenamento nei corridoi degli spogliatoi una pallonata presa al basso ventre su involontario tiro di Jair». Bugatti, in divisa sociale, restò seduto in tribuna, per tutta la partita, Sarti in campo dal primo minuto fino al fischio finale e trionfale. Questo era il football, visto e vissuto dall’uomo solo, in porta. Oggi la giostra prevede massima circolazione e poca fedeltà. Conta il risultato, il resto è romanticume.

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