Il Messaggero (A. Angeloni) – Domani è il compleanno di Bruno Conti, sono 70, mica noccioline. Più di cinquanta vissuti nella Roma. “Questa è da sempre casa mia: chi non sa, non può capire“, dice Bruno, orgoglioso. Settanta anni tutti da raccontare. Povertà, ricchezza, sorrisi e lacrime.
Cominciamo: Bruno Conti bambino.
“Via Romana 142, Nettuno. Comincia tutto lì. Ero un irrequieto: in estate il baseball e d’inverno il calcio. Cresciuto sulla strada. Mi divertivo. Lanci con il guantone, finte e tiri col pallone”.
Papà muratore avanti e indietro con Roma, mamma casalinga, sette figli e pochi soldi.
“Ma c’erano calore e amore. I tre maschi dormivano in un letto, la casa non era grande. C’erano problemi, avevamo poco ma ce lo facevamo bastare. Giocavamo, c’era casino, mia madre mi rincorreva con la cucchiarella e quando papà tornava a casa la sera gli veniva presentato il conto. Un’infanzia comunque felice”.
Ha dovuto pure lavorare.
Nel negozio di casalinghi di mia zia Maria, portavo le bombole in bicicletta e le montavo negli appartamenti. A volte nemmeno la mancia, e quelle cinque-dieci lire facevano pure comodo. Quando sono diventato famoso, ”Ah bello, Brù, ti ricordi quando ci portavi le bombole a casa?” “E come, non mi ricordo? Ricordo pure che non mi davi nemmeno ‘na mancetta”.
Chi le ha regalato il primo pallone?
“Giocavo con quello degli altri. Certe volte lo costruivo col cartone, o con il cuoio di un pallone bucato. Quando mi invitavano ai compleanni i ragazzi più abbienti di me, erano dolori. Inventavamo scuse per non andare: non c’erano soldi per il regalo o per cambiare i vestiti. Capirai, portavo sempre gli stessi pantaloncini, come facevo?”.
E il calcio?
“Facevo i tornei dei bar, ero un dribblomane, un bel sinistro. Tonino Trebiciani mi segnalò alla Roma dopo che andò via Herrera, che inizialmente mi aveva scartato. Avevo diciotto anni». Ora i giocatori si scelgono con l’algoritmo, non dalla strada. «Manca il sacrificio, si vuole tutto e subito. Si pensa ai traguardi, non a costruirli pian piano. Manca la strada, è vero. Ma anche il lavoro e gente che insegni calcio in una certa maniera. Oggi i calciatori vanno via dalle giovanili prima dei 16 anni. A noi è successo solo con Scamacca. Quando tanti anni fa proponevi i primi soldi, i genitori toccavano il cielo con un dito, per i giocatori era un sogno. Un esempio è De Rossi: non vedeva l’ora di stare nella Roma”.
Il suo rapporto col club a è andato sempre bene?
“Beh, da Viola a Sensi, ci sono state occasioni per andare via: mi voleva Maradona al Napoli, anni dopo la Figc. Ma sono sempre rimasto. Il primo anno di Pallotta ebbi qualche problema. Si voleva cambiare il settore giovanile. Ho solo chiesto: ‘In cosa ho sbagliato? Da qui sono usciti giocatori importanti, sono state fatte tante plusvalenze’. Sono uscito e poi rientrato”.
Come spese i primi soldi del calcio?
“Sotto Natale arrivò il primo stipendio, avevo una 128 usata, blu, l’ho riempita di regali per portarli a casa. Giubbotti, anelli, roba di ogni genere, per la mia famiglia. Niente, mi hanno rubato tutto prima di tornare a casa, io vivevo al Convitto di Ostia”.
Ma i soldi l’hanno cambiata?
“Sono rimasto sempre lo stesso. Li ho saputi gestire, pur essendo un generoso”.
I rimpianti da calciatore?
“Solo la finale di Coppa dei Campioni. Non sarebbe ricapitata e non è capitata. C’era l’arbitro svedese, si diceva che con Liedholm saremmo stati avvantaggiati, invece il loro gol fu pure irregolare. Forse ha ragione Nela, siamo arrivati all’appuntamento troppo tesi; il Liverpool scherzava e rideva, noi no”.
Lei e Ciccio Graziani siete stati “perdonati” per gli errori dal dischetto.
“Non mi sono tirato indietro, li avevo segnati in passato, Ciccio qualcuno lo aveva sbagliato. Purtroppo ci sono mancati rigoristi eccellenti. Falcao? Per il ruolo e visto che eravamo in difficoltà, forse doveva tirarlo”.
Rimpianti nella vita?
“Nessuno. Ho fatto ciò che mi piaceva. Ho reso orgogliosa la mia famiglia”.
Rimpianti di non aver visto crescere Daniele Conti nella Roma?
“C’era anche Andrea, sfortunato ma più forte tecnicamente di Daniele e di me. Il cognome ha pesato ma non mi hanno mai chiesto nulla, nessun aiuto”.
Come racconterebbe Bruno Conti a un giovane che non la conosce?
“Gli parlerei della fantasia, di un calcio fatto di amore. Di un uomo che ha inseguito i sogni, che non ha avuto paura di nulla”.
Si commuove ancora?
“Mi succede sempre, sono un piagnotto. Ho vinto il mondiale e pianto; all’addio al calcio idem. Uguale quando ascolto gli inni della Roma. E poi quando penso ad Agostino, il mio capitano. Lo avevo visto pochi giorni dalla morte, sorrideva. Non mi ero accorto di nulla. Che rimpianto”.
Veniamo ai suoi ultimi due anni. Molto difficili.
“Il tumore, la malattia, le cure. Ora sto bene. Ho avuto la famiglia sempre con me. Mia moglie Laura è eccezionale, al mio fianco dopo l’intervento e durante le terapie. Dico a tutti di non mollare la vita, di fare prevenzione, di volersi bene. Per fortuna una tac mi ha salvato, fatta grazie al mio medico di famiglia, il dottor Camilli. Ho visto tanta umanità in ospedale, devo ringraziare il professor Rendina del Sant’Andrea. E anche i Friedkin, che mi hanno proposto di andare a operarmi negli States. Lo sconforto ogni tanto arrivava, ma mi hanno subito rassicurato e sono stato positivo”.
Ci consenta una battuta: ha perso i capelli, per lei sarà stato un dramma.
“Andavo in giro con il cappello. Come sempre, mi passavo la mano sulla testa, ma i capelli non li avevo. Per fortuna mi sono ricresciuto».
Come vive il calcio un settantenne, s’è un po’ stancato?
Vedo ancora tante gare. E poi la Roma naturalmente, non si discute. Vivo grandi soddisfazioni, nell’aver visto De Rossi fare l’allenatore qui, di aver cresciuto al fianco di Totti, bella intuizione di Gildo Giannini; e oggi nel guardare Ranieri, un uomo di 73 anni, che ama il calcio e la Roma come pochi, come ho fatto io. Sta facendo cose incredibili”.
I suoi gioielli?
“De Rossi, Aquilani e non solo”.
Nella Roma è sempre stato rispettato?
“Tanto, ma non sempre. A volte sono stato messo in discussione, giudicato per cose non vere. Ma non ho mai detto arrivederci e grazie. E in ogni matrimonio ci sono alti e bassi”.
È mai scappato da un ritiro?
“No, ma ricordo una volta con Radice che ero arrivato tardi al pullman, non mi ha fatto salire. Ma con Gigi c’era un rapporto favoloso. Qualche contrasto l’ho avuto con Eriksson, che faceva giocare Bergreen al mio posto e con Bianchi, che mi considerava vecchietto. Invitai entrambi al mio addio: Sven partì dal Portogallo ed era all’Olimpico, Ottavio trovò un motivo per non venire”.
È stato un padre più Liedholm o Bearzot?
Nils era un maestro. Ma il vero papà è stato Bearzot, seppe gestire una situazione difficilissima nel 1982. Oggi senti parlare di giochisti e risultatisti, ma lui era tutto e la sua umanità era un valore. La vittoria mondiale fu soprattutto sua”.
Gli ha mai chiesto perché non convocò Pruzzo?
“Si diceva fosse un brontolone. Portò Selvaggi, uno che stava lì, tranquillo”.