Pagine Romaniste (F. Belli) – A volte è solo una questione di distanza, che sia in chilometri o in miglia dipende solo dalla prospettiva. Una distanza indefinita per tutti, perché come diceva Hemingway dobbiamo abituarci all’idea che al più importante bivio della vita non c’è segnaletica. Per tutti ma non per Bruno Conti, che prestissimo nella vita si è trovato davanti a un incrocio con due segnali. Roma, 60 chilometri prendendo la Pontina. Santa Monica, 6200 miglia e un oceano in mezzo, ci si arriva in aereo. La scelta più facile è quella più vicina. Non tutti sognano la California, non Bruno, che sogna solo la Roma. Non lo convincono neanche le offerte dei dirigenti Yankees venuti a casa sua a Nettuno, da sempre una specie di colonia americana del litorale romano, per ingaggiarlo come giocatore di baseball. Neanche i ricordi di padre Federico che quando lo allenava da piccolo aveva intravisto in lui le doti del campione. Una palla, un campo verde, ma con una mazza che cambia tutto. Cambia tutto, ma non la sua ferma convinzione di giocare per la squadra che tifa fin da bambino, nello sport del fuorigioco. Scartato al primo provino dal mago Herrera, le cui gesta leggendarie vengono ancora ricordate nella Capitale, verrà comunque preso poco dopo.
Il mondiale di Marazico e la lotteria degli orrori
L’esordio è datato 10 febbraio 1974, in un anonimo 0-0 contro il Torino. Anonimo per tutti ma non per lui, che si lega al cuore quel momento con la semplicità e la genuinità di un bambino. E’ fatto così Bruno Conti, un campione buono con lo scherzo come anatema di vita. Nel 1982 è tra i protagonisti del miracolo azzurro nei mondiali di Spagna che gli faranno guadagnare il soprannome di Marazico, un po’ Maradona un po’ Zico. L’anno successivo il tricolore con la Roma è il coronamento di un sogno, un sogno che solo un eterno bambino come lui poteva immaginare. L’anno successivo in quella maledetta finale col Liverpool è lui il primo romanista a sbagliare alla lotteria dei rigori. Più che dei rigori, una lotteria degli orrori che lo tormenterà tutta la vita. Ed è dopo un’altra sconfitta in una finale europea, questa volta in Coppa Uefa contro l’Inter, che appende le scarpe al chiodo. Il giorno successivo all’Olimpico è prevista da settimane la sua cerimonia d’addio, e il “Sindaco di Roma” non si aspetta nessuno spettacolo sugli spalti. Troppo grande la delusione del giorno precedente, troppo profonda la ferita. Si sbaglia. Perché i tifosi riempiono lo stadio e omaggiano il loro beniamino come si deve, costringendolo alle lacrime. Perché la gratitudine è la memoria del cuore, e i tifosi della Roma non sono smemorati.