La Gazzetta dello Sport (D.Stoppini) – Habla español, esta Roma. O forse catalano, perché c’è tutto l’amore e l’ammirazione di Eusebio Di Francesco nei confronti del modello Barcellona dentro la crescita di una squadra che, dalle 21.30 del 14 ottobre scorso, ha deciso che sì, era giusto difendere andando avanti piuttosto che all’indietro. Nell’intervallo della partita col Napoli nacque la Roma. L’Idea, invece, era già nella testa di Eusebio, di uno che – in un’intervista di un anno e mezzo fa a «La Stampa» – disse: «Cruijff ha cambiato il calcio ed è un grandissimo esempio, valido ancora oggi: guardate il Barcellona. Del modello spagnolo da noi porterei il metodo, le seconde squadre, la “cantera”, i tecnici cresciuti nel club. E poi farei giocare i ragazzi in tutti i ruoli per capire ogni cosa». Praticamente, importerebbe tutto.
LA CARICA DEI 200 – La parte per il tutto, da queste parti, è un modello tattico che con le debite proporzioni sta riproponendo alla Roma. Di Francesco non è mai stato in Spagna a studiare gli allenamenti dei colleghi, si professa con soddisfazione autodidatta. Ma il pressing alto e la riconquista del pallone nella metà campo avversaria è il marchio di fabbrica blaugrana degli ultimi 15 anni. La Roma ne ha riconquistati 200 in 12 partite di campionato, una media di 16,6 ogni 90 minuti. Meglio, in Serie A, hanno fatto solo il Napoli con 22,6 e la Samp con 17,2. È il segno di una rivoluzione nella testa dei giocatori, che con Spalletti avevano sposato due modi di giocare diversi, ma sempre con la stessa filosofia di base: nella prima mezza stagione, tridente dei piccoli e ripartenze a ripetizione. Nello scorso torneo, invece, baricentro basso e palla lunga per appoggiarsi a Dzeko e ai contropiede di Salah. Il primo e il quarto gol di Firenze, il 2-0 di Nainggolan nel derby: sono le ultime tre fotografie di una nuova mentalità.
QUELLA SERA – Musica per le orecchie del direttore sportivo Monchi, andaluso per nascita e per convinzione, colpito dalla continua ricerca del gioco dell’allenatore. Il d.s. decise che prima o dopo la sua strada e quella di Eusebio si sarebbero incrociate la sera del 15 settembre 2016, quando il Sassuolo travolse in Europa League l’Athletic Bilbao: 3-0, Monchi davanti alla tv a Siviglia che prendeva appunti, utili per parlare con Eusebio qualche mese più tardi e affidargli la panchina della sua prima Roma.
COSÌ VICINO – E via, adesso sì, alla rincorsa del modello da sempre indicato come riferimento da James Pallotta, l’Atletico Madrid. «Difficilmente si può riproporre lo stesso progetto in due ambiti diversi – ha spiegato Monchi in un’intervista a El Mundo –. Però apprezzo ciò che l’Atletico ha fatto, in particolar modo per due cose: innanzitutto perché è riuscito a rinascere da una situazione molto complicata e poi perché l’ha fatto all’ombra di uno dei club più grandi del mondo, il Real Madrid». Pallotta sarà d’accordo, a maggior ragione a fronte di una società che è riuscita a costruire il suo stadio, il Wanda Metropolitano dove domani ospiterà proprio Di Francesco. Eccolo qui, il primo di una serie di cerchi concentrici che può chiudersi: proprio contro l’Atletico la Roma vuole chiudere la qualificazione agli ottavi, al termine del cammino europeo più brillante dell’era Usa. Mai l’Atletico Madrid è stato così vicino nel rapporto di forza dal 2011 a oggi. Mai questo Atletico Madrid, tanto cholista e così poco spagnolo, è stato più lontano per stile di gioco dall’attuale Roma. Il pullman di Eusebio, domani, resterà fuori dallo stadio, non si metterà dentro l’area di rigore. Tutto da vedere se basterà per uscire con un risultato positivo. Certamente, tornare indietro sarebbe snaturare l’Idea. E farlo a Madrid, per una Roma spagnola, sarebbe davvero un controsenso.