La Gazzetta dello Sport (M. Della Vite) – Formidabili quegli anni. Anni di coppe e scudetti, di luci a San Siro e lupi ringhianti all’Olimpico. Forse semplicemente di calcio italiano spesso padrone. Le 11 stagioni vissute da Christian Chivu tra Roma e Inter – dal 2003 al 2014 – hanno costruito l’uomo pacato e lucido che, da Bucarest, ci dedica il suo tempo solo dopo aver badato alle sue figlie, Natalia e Anastasia.
A 35 anni l’ex difensore romeno, se si guarda indietro, può raccontarsi come un ragazzo fortunato:
«Perché ho conosciuto persone fantastiche da cui ho imparato tanto e a cui spero di aver dato qualcosa anche io».
Lei ha smesso da poco più di un anno: le manca il calcio?
«Per ora sto bene così. Qui a Bucarest seguo i miei affari, gioco ancora un po’, mi diverto col tennis, però mi piacerebbe lavorare con i ragazzi. Aspetto l’occasione giusta. Intanto però faccio il babysitter. Non è facile, però guardi che sono bravo».
Le bimbe le danno il tempo di seguire il nostro calcio?
«Certo. Dopo tanti anni da voi mi sento un po’ italiano. I risultati nelle Coppe dicono che le cose stanno migliorando, però mancano ancora giocatori di qualità e una competitività più alta in campionato. Per me ne risente anche la Juve, che gioca senza troppa pressione. Purtroppo il vostro non è più un torneo di alto livello».
Si gioca Inter-Roma: come vede i due club del suo passato?
«In modo diverso. Tutte e due si sono rifondate, ma i giallorossi hanno cominciato prima. Nel gruppo di Mancini c’è tanta qualità, però manca sicurezza nei propri mezzi e questo non permette la continuità, perché secondo me la rosa è da zona Champions. Il calo della Roma invece mi stupisce, non me l’aspettavo. Dopo l’anno scorso pensavo di vedere una crescita, ma ha pagato a livello mentale. La Champions ha tolto fiducia, senza contare che il mercato di gennaio non ha portato alcun vantaggio. Io comunque continuerei con Mancini e Garcia, che hanno l’esperienza giusta per riportare tutte e due al vertice. Basta ricordarsi che per vincere occorre per prima cosa una difesa forte».
Come immagina il futuro delle due rivali?
«Per tradizione l’Inter ha l’obbligo di tornare in alto in Italia e in Europa, mentre la Roma poteva migliorare di più, ma è difficile farlo se ogni anno vendi i migliori per tappare i buchi. Comunque entrambe hanno dirigenti capaci e sono convinto che faranno bene».
È una vantaggio o no che i due club abbiano proprietari stranieri?
«Forse molti non saranno d’accordo, ma per me è un vantaggio. Pallotta e Thohir stanno portando qualcosa di nuovo in un calcio che invece vive molto di stereotipi».
Che ricordo ha invece di due presidente vecchio stile come Sensi e Moratti?
«Due persone fantastiche. Sensi mi è stato vicino anche nei momenti meno felici, per esempio quando il mio trasferimento dall’Ajax stava saltando. Di Moratti invece dico solo che tutto ciò che potete sentire di bello su di lui dovete moltiplicarlo per dieci».
Ce la farà la Roma ad arrivare seconda?
«Pioli è bravissimo e la Lazio ha scoperto Felipe Anderson. Deciderà il derby. Ma occhio anche al Napoli, mi pare che voli».
Domani chi vince e chi vede protagonista?
«Non mi piace fare pronostici però, parlando di giovani, dico che Kovacic ha un talento pazzesco, gli manca solo fiducia, mentre Guarin e Icardi hanno qualcosa in più. Tra i giallorossi mi piace Verde, se continua così può fare carriera, e mi pare che Ljajic stia facendo abbastanza bene. Iturbe invece sta soffrendo, ma alla sua età fare il salto di qualità non è facile».
D’altronde la Roma, tra i titolari, ha tanti giocatori avanti negli anni.
«È normale, quando giochi la Champions occorre esperienza».
Da dirigente, rinnoverebbe il contratto a Totti?
« Francesco può continuare fino a 40 anni. È in forma e se poi uno ha la testa giusta…. Il problema è che il vostro calcio non dà spazio ai giovani italiani, ma preferisce puntare sugli stranieri».
E la Nazionale ne paga il conto.
«Esatto, capisco le difficoltà di Conte. Negli ultimi anni chi avete lanciato? Santon, Giovinco per un breve periodo, El Shaarawy. Poi per giocare uno come Verratti è dovuto andare all’estero. Invece occorre dare fiducia ai ragazzi. Io a vent’anni ero titolare in Champions. Se posso capire le grandi che hanno bisogno di vincere subito, mi meraviglio che gli altri club italiani non facciano crescere giovani da rivendere alle big».
Lei ha vinto tanto in Italia, ha però qualche rimpianto particolare?
«In generale nessuno. Mi dispiace solo che con la Roma abbia vinto solo una Coppa Italia, ma non ho amarezze. Certo, quando poi è scoppiata Calciopoli qualche domanda me la sono fatta, ma è sbagliato crearsi alibi. Così non cresci mai».
A proposito di crescita, per lei il passaggio dalla Roma all’Inter fu traumatico. Nella finale di Coppa Italia del 2010 all’Olimpico si ricorda come fu preso di mira da un gruppo di tifosi a cui rispose con un gestaccio (mani alle parti basse, ndr).
«Il mio addio fu considerato un tradimento, forse per il tanto amore che c’era stato prima. Quel giorno sbagliai e chiesi scusa, però alcuni in tribuna Tevere mi dissero delle cose orribili sull’incidente alla testa che avevo avuto. L’epiteto “zingaro” non mi offende neppure, così come un calciatore di colore non dovrebbe prendersela se gli dicono “nero”, ma quel giorno mi augurarono la morte in mille modi. Fu una cosa molto brutta».
Da noi gli ultrà sono potenti e Capello, suo ex allenatore, da tempo dice che sono i padroni del nostro calcio.
«Ha ragione, credo che sia una battaglia che non si vincerà mai. Se le cose vanno bene non c’è problema, ma se ci sono difficoltà è un dramma. E i club ne pagano le conseguenze ».
Ha trovato differenze tra gli ultrà di Roma e quelli di Milano?
«Non saprei. Non riesci a capire davvero cosa passa nella testa di un capo ultrà. A Roma per l’ambiente ho potuto perdere uno scudetto, mentre a Milano, visto il periodo, sono stato fortunato, però tante cose vanno oltre la passione. Non fanno bene alla squadra».
Il portiere De Sanctis ha detto che ha conosciuto calciatori che hanno rapporti con gli ultrà: lei ne ha conosciuti?
«C’era chi ci parlava di più, chi di meno, ma non è questo il problema. Non ho mai visto un compagno che non si impegnasse al cento per cento per vincere, mentre ne ho conosciuti tanti che per la pressione che avevano addosso non riuscivano a giocare. A tutti fa piacere il calore del tifo, però non dovremmo dimenticare che il calcio è solo un gioco. C’è sempre bisogno di fair play».
Un’ultima domanda: in questo momento la Juventus sta ritrovando grande sicurezza. Ma se giocasse una sfida secca contro la sua Inter del Triplete, chi vincerebbe?
«Non ho dubbi: noi di sicuro».