Chi comanda negli spogliatoi

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Il Venerdì di Repubblica (A.Carotenuto) – Era quattordicesima, guardate ora dov’è. Ma per capire la rimonta della Juve non bisogna ammirare i gol, non subito, i gol vengono dopo. È fuori dal campo che tutto è cominciato, dentro lo spogliatoio, dove le verità di una squadra di calcio si manifestano prima che siano visibili sul prato. È la faccia di Buffon che si deve fissare, messa davanti alle telecamere a fine ottobre, dopo la quarta partita persa su dieci, contro il Sassuolo. «A 38 anni non ho voglia di fare figure da pellegrini. Non dobbiamo noi grandi permettere una cosa simile». Noi grandi significa i leader, noi che deteniamo il potere nella stanza in cui gli sguardi estranei non arrivano. Lui, il motivatore Bonucci, il filosofo Evra, il silenzioso Barzagli, il duro Lichtsteiner, il ragazzo di casa Marchisio: ogni uomo un profilo, e tutti insieme l’anima della Juve, la scatola nera che governa gli umori nascosti. Ogni squadra ne ha una, se non ce l’ha sprofonda. Cosa fa Buffon a Reggio Emilia: rompe il cerchio dell’anarchia in un gruppo che aveva perso in estate due figure centrali come Pirlo e Tevez. Fa l’appello dei valori perduti, ricorda ai giovani il senso d’appartenenza, ricuce una comunità con un filo morale. Lo fa – dettaglio non da poco – andando in tv prima che di là passi il suo allenatore Allegri. Disegnata la nuova carta di forze in campo, la Juve si ritrova. Non è una magìa, è una storia vecchia quanto il calcio.

Una mappa del potere dentro uno spogliatoio si può scrivere in mille modi. Non sempre il più bravo è il più influente. Nel Santos di Pele comandava un mediano di nome Zito. Totti è l’unico calciatore ad avere un ufficio nella sede del suo club, una stanzetta piena di poster coppe e cimeli, sullo stesso piano del direttore sportivo Sabatini. Ma dentro lo spogliatoio non esercita quanto potremmo immaginare. Non più. Gli ha dedicato una dose di veleno Burdisso, suo ex compagno di squadra, che recentemente di lui ha detto: «Non è un vero leader, De Rossi è stato troppo buono: non ha voluto scavalcarlo». Diversi, vicini, mai fino in fondo amici: tuttora De Rossi resta a Trigoria nel nucleo dei capi. Dall’esterno abbiamo un modo per riconoscerli: si espongono quando una sconfitta fa rumore. Evitano che le parole dei peones producano più danni. De Rossi è tra questi. Non si nasconde. Come il portiere De Sanctis, scivolato in panchina ma sempre fra i più ascoltati dai compagni. Perché un leader può anche giocare poco o mai, eppure restare autorevole, come Amauri al Torino o Palombo alla Sampdoria.

Il Napoli ha riconsegnato il suo alfabeto segreto al portiere spagnolo Reina. Abbraccia gli altri uno per uno nel tunnel prima di una partita, si batte il petto col pugno, rimprovera i compagni polemici dopo una sostituzione. Reina ha stabilito un rapporto speciale con la città. Il suo addio, un anno fa, fu un trauma. Quando è tornato, ha messo le cose in chiaro col nuovo allenatore Sarri: «Gli ho detto che litigheremo spesso, ma sempre con lealtà». Con quest’avvertenza si prendeva il comando più della stella Higuaín, che corse ad abbracciarlo, felice di ridargli la password della squadra. Il comando è spesso questione etnica. L’Inter recente è stata in mano ai suoi argentini, tanti e di peso: Cambiasso, Samuel, Milito, Palacio, soprattutto Zanetti, che ha poi esteso la sua autorità fino a raggiungere la vicepresidenza. Quando si confessa in privato, Mazzarri racconta di essere stato esonerato anche per l’ostilità di quel partito. Intorno a Mancini si è dovuto ricreare daccapo un nucleo di potere, partendo dal cileno Medel e dal brasiliano Melo, due che sull’aura da cattivi fondano la metà del loro prestigio. In questa squadra, dodici mesi fa, Icardi e Osvaldo – argentini – si stavano mettendo le mani al collo durante la partita con la Juve per un pallone non passato. «Così non si costruiscono le grandi squadre» mandò a dire Mancini ai due. Osvaldo non c’è più. Pure dalla Roma era dovuto andar via dopo una lite nello spogliatoio: raccontano che Maicon l’avesse affrontato dopo un gesto di foot-bullismo verso un ragazzino della Primavera.

I codici interni sono tavole della legge. Comprendono piccole regole di convivenza (non si usa il cellulare al campo, non si canta sotto la doccia, non si va in moto) e un cifrario in fondo tribale. Ne sa qualcosa proprio Icardi, colpevole d’essersi innamorato della ex moglie di un compagno, Maxi López. Ha conosciuto l’esilio morale da parte del suo ambiente, almeno finché Wanda non l’ha sposata. Perfino Maradona, non il primo esempio di monogamia che venga in mente, dall’Argentina gli fece sapere: «Ai miei tempi lo avremmo picchiato a turno». Il punto qui non è la fedeltà alla propria donna, ma al tempio, allo spogliatoio. John Terry, capitano della Nazionale inglese, si vide sfilare la fascia dal braccio per essere andato a letto con la moglie di un compagno al Chelsea, Wayne Bridge. Il carisma di un grande attaccante della serie A venne meno agli occhi della squadra quando avviò una relazione con una delle ragazze che di solito attendevano i calciatori all’uscita dal campo, lei già conosciuta da uno, due, anche tre compagni. Del resto, in questo mondo di eterni adolescenti, capita che un leader venga scelto in base al valore più evidente e misurabile durante una doccia di gruppo. Il maschio alfa.

A un allenatore si perdona tutto, eccetto il mancato controllo degli equilibri dentro la stanza in cui nasce impercettibile la gloria. O la disfatta. «Non mi dimetto per una sconfitta, casomai se non governo più lo spogliatoio» ha detto Van Gaal, del Manchester United. Ogni allenatore ha il suo registro. Mourinho lavorava cercandosi un nemico, al Chelsea un mese fa il centravanti Costa gli ha lanciato una pettorina sulla faccia. «O io o lui» ha urlato Cristiano Ronaldo al Real Madrid, obiettivo lo spigoloso Benítez. Di Pep Guardiola si sa che dai suoi esige sottomissione, l’ha rivelato Ibra. Conte mollò un pugno in un armadietto a Bergamo quando Doni osò contraddirlo, indebolendone la guida. Ancelotti punta sulla serenità. Non è un full metal jacket, tiene tutto dentro. Paolo Maldini raccontò che negli spogliatoi avversari sentivano regnare tensione e silenzio, nel loro c’erano Berlusconi e Ancelotti a raccontare barzellette. Gli allenatori hanno imparato che devono lasciare alla squadra il suo privato. Si vive in ambienti separati. Il rapporto fra loro è questione delicata. Messi a Barcellona non ha rivolto per mesi la parola a Luis Enrique. Ora si dice che la squadra si regga su un compromesso. Dentro lo spogliatoio il potere è di Leo, l’ex bambino fragile diventato spigoloso, in campo appartiene a Neymar e Suárez. In cambio di qualche assist in più.

Per leggere uno spogliatoio, si deve sbirciare nelle esultanze dopo un gol. Come si festeggia, chi abbraccia chi, se dal mucchio qualcuno si tiene lontano. Nel libro Le undici virtù del leader, l’argentino Jorge Valdano definisce lo spo-gliatoio un habitat. Convivono «furbi, stupidi, gentili, ombrosi, buoni, cattivi, coraggiosi, vigliacchi, vanitosi, umili, leader, gregari. Il cemento che unisce quei tasselli così diversi è la generosità di alcuni». Parve un’esagerazione l’esclusione di De Rossi dalla formazione, tre anni fa, per un ritardo di cinque minuti a una riunione. Ma chi conosce il linguaggio riservato del calcio sa che non esiste affronto maggiore. Filippo Fusco, dirigente, relatore ai corsi di Coverciano, spiega che «un ritardo toglie importanza a ciò che stai facendo e alle persone con cui lo fai. Una squadra è fatta di ingranaggi che non si vedono, la mancanza di valori condivisi smantella questa micro-società. Perciò diventano centrali gli agevolatori degli stati d’animo, team manager, direttore sportivo o quelle figure che fungono da custodi dei valori di un ambiente, come massaggiatori e magazzinieri». Gli invisibili.

Italo Allodi, dirigente dell’Inter anni 60, appuntava in un’agenda le date dei compleanni delle mogli dei calciatori. Come sanno gli amici che fanno le vacanze assieme, se le signore non vanno d’accordo qualcosa si inceppa. Nel selfie scattato a maggio dalle mogli della Juve allo stadio, sbucò pure Ilaria D’Amico, da poco compagna di Buffon. Fu letto come un buon segno: la casta l’aveva accolta. «Mia moglie Mary è stata fondamentale nel tenere unita la squadra» racconta Beppe Bruscolotti, leader del Napoli dello scudetto ‘87, «casa nostra era aperta a chi volesse capire la città». Un gruppo ha l’olfatto sviluppato, sa annusare un leader che arriva. Eraldo Pecci, 60 anni, uno scudetto al Torino nel ’76: «Un leader sprigiona endorfine. Da noi Roberto Salvadori aveva due piedi a papera, ma intuiva l’arrivo delle crisi. Il leader vede una via d’uscita prima degli altri». Certi meccanismi sono uguali, in serie A come più giù. Sergio Mari ha vissuto quindici anni fra B e C,oggi ha una seconda vita da scrittore: il suo ultimo romanzo è Sei l’odore del borotalco. Dice: «Dopo Sacchi gli allenatori si sono messi a studiare gestione del gruppo. L’ideale è parlarsi al martedì: dopo una sconfitta sarebbe buona regola tacere». L’eccezione più rumorosa rimane la Lazio campione nel ’74, spaccata in due clan: da una parte Chinaglia e Wilson, dall’altra Martini e Re Cecconi. Una squadra che finiva gli allenamenti a schiaffi, viveva in due spogliatoi diversi a Tor di Quinto, si sfidava al tiro al bersaglio con le pistole. Se a tavola Chinaglia ordinava vino bianco, gli altri chiedevano il rosso. A ogni rissa, il povero allenatore Maestrelli li chiudeva nella stessa stanza: «Chiaritevi, quando avete finito bussate e vengo ad aprirvi».

Bruno Barba, ricercatore di antropologia all’Università di Genova, autore di Un antropologo nel pallone, spiega: «Uno spogliatoio è l’esatto contrario dei famosi non-luoghi di Marc Augé. È un iperluogo, dove si crea l’anima della squadra e regna un realismo magico. È un contenitore di simboli con riti auto-referenziali e pseudo-religiosi. Un leader non si sceglie, si impone con il suo curriculum di credibilità». Quel luogo esige sacralità. Deve essere impenetrabile. E però. Guardate la prossima partita, poi andate a leggere le pagelle. Se qualcuno vi parrà aver giocato da sei e il voto invece sarà sette, forse quello lì qualcosa ai giornali va a raccontarla. Dallo spogliatoio siamo affascinati. Le tv pagano milioni per piazzare lì dentro le telecamere prima di una partita, consapevoli d’avere in cambio una recita in cui i campioni infilano maglie, allacciano scarpette e al massimo dicono «forza, andiamo». I turisti si mettono in fila per visitarli. Il Barcellona fa pagare 23 euro un giro fra museo e vestuario. Più che per entrare a Stonehenge. Ma vuoi mettere il fascino di un mistero vero.

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