Il Fatto Quotidiano (A.Padellaro) – Adesso fateci la cortesia di rincollare i cocci, di salvare il salvabile, di mettere fine prestissimo a questa brutta storia che non ci meritiamo, e anche se nulla potrà più essere come prima, il presidente e pregato di comportarsi da presidente, l’allenatore faccia l’allenatore e Francesco Totti si ricordi che Totti e un patrimonio collettivo, forse anche universale, e che non può buttarsi via così, per un’incazzatura gestita male. Che tutti abbiano torto e anche un pezzo di ragione e una banalità che risparmierei ai lettori, i quali probabilmente preferiscono sapere perché tutto ciò non c’e stato evitato. Abbiamo un campione eccelso che giunto sul limitare dei quarant’anni non si rassegna a evaporare tra la panchina e qualche minuto di recupero con il Real Madrid. Non vuole, non ce la fa, non se la sente, ci sta male sul serio, e i predicozzi su quanto dovrebbe essere bravo a uscire di scena con dignità ed eleganza lasciamoli ai dispensatori di luoghi comuni che tutto presumono e nulla possono sapere su questo tormento umanissimo che segna il confine tra il prima e il dopo, tra uno stadio che grida il tuo nome e la patetica partitella degli addii tra vecchie glorie. E lasciamo perdere che tutti ci sono passati, perché solo Totti come Del Piero (lui pure idolatrato e poi maltrattato a Torino) esibiva il gioiello più prezioso della corona di ottavo Re di Roma. La fedeltà a una maglia unica e sola, quella giallorossa che secondo gli aedi capitolini porta addosso come una seconda pelle, facendosi bastare uno scudetto quando c’era il Real (sempre sto’ maledetto Real) pronto a fargli vincere tutto il cucuzzaro.
Ma qui siamo nella Città Eterna dove l’eternità avvolge insieme ai ruderi e alle buche nelle strade anche il mito di un Capitano immortale che nei nostri cuori dovrebbe poter giocare sempre e per sempre, perché il pensiero di non vederlo più in campo non ci ha mai sfiorato. Perché, si sa, non c’e niente di adulto in chi ama una squadra di calcio ma solo la preghiera infantile che il gioco non finisca mai, perché adesso vedrai prende la palla Francesco e ci pensa lui. Per questo bisognava pensarci per tempo, mettendoci tutta la cura possibile e, invece, si e lasciato che le cose rotolassero senza amore e rispetto. C’e il mister richiamato a furor di popolo a rimettere in piedi una squadra scombinata, uno che giustamente si fa un paio di conti prima di schierare un genio con il fisico di un quarantenne contro un brocco che però corre e contrasta. Anche questo e rispetto, ci fa capire Spalletti: d’accordo, ma non poteva dirglielo prima, prendendolo da parte, convincendolo, facendolo sentire ancora essenziale come può esserlo il numero 10, magari per un tempo o per cinque minuti veri, invece che “buongiorno e buonasera”? Poi c’è la società, mistero glorioso e doloroso, perché gli americani hanno portato soldi e progetti ma anche l’oceanico distacco di un simpatico proprietario, Pallotta, che quando si sveglia a Boston a Roma andiamo a letto, e che sei ore avanti o sei ore indietro con Totti non ha mai regolato l’orologio del contratto. E poi c’e lui, che già a Sassuolo palleggiando col raccattapalle o con la schicchera a Pjanic, ce lo aveva già detto in puro tottese: “Ma io qui che ci sto a fare?“. Facile dire dopo che quell’intervista al Tg1 non doveva darla, con quei toni poi e proprio alla vigilia di Roma-Palermo. E che doveva fare Spalletti, finta di niente per poi autorizzare l’ultimo raccattapalle a ridergli dietro? Stiamo tutti male. Fate qualcosa. Non può finire così.